Sentenza Cassazione Penale n. 20051/2016
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Sentenza Cassazione Penale n. 20051/2016
Cassazione Penale, Sez. 4, 13 maggio 2016, n. 20051 - Caduta dell'anta sinistra di un cancello della scuola: responsabilità del dirigente scolastico e del RSPP
Fatto
Esclusa l'aggravante di cui al 3° comma dell'art. 590 cod. pen., previa concessione delle attenuanti generiche, l'imputata era stata, dunque, condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di duemila euro di ammenda per la contravvenzione di cui al capo A) e di quattrocento euro di multa per il delitto di cui al capo C), nonché al risarcimento dei danni cagionati alle due pp.oo. costituite parti civili, V.G.O. ed A.B., con assegnazione di provvisionale a ciascuna di esse.
Il Tribunale aveva, invece, assolto l'ing. A.F. dai reati di cui al capo B) (art. 33 d.lgs. n. 81 del 2008), per avere cioè, in qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell'Istituto comprensivo statale "Casteldaccia", di cui era dirigente scolastico la prof.ssa G.S., che lo aveva incaricato come consulente, nella redazione del documento di valutazione dei rischi, omesso di individuare il rischio connesso allo stato di ammaloramento del cancello a due ante di pertinenza del plesso scolastico "Luigi Capuana" e di prevedere, tra gli interventi da effettuare, la manutenzione del predetto cancello e, in particolare, la sostituzione dei cardini, visibilmente corrosi, e di cui al capo C), cioè il delitto di lesioni colpose addebitato anche a G.S., del quale si è detto in precedenza. L'assoluzione è stata pronunciata con la formula "perché il fatto non sussiste".
L'antefatto del processo era costituito dall'improvviso distacco, la mattina del 19 dicembre 2008, di un'anta del cancello che costituiva il varco dell'istituto scolastico, con caduta dell'anta, rallentata ma non fermata dall'intervento di A.B., che era venuto a riprendere il proprio figlio all'uscita di scuola.
La pesante anta colpiva, dunque, sia il genitore A.B. sia lo studente V.G.O., provocando ad entrambi le lesioni di cui al capo C). Le indagini avviate dal Pubblico Ministero conducevano alla formulazione delle imputazioni che si sono riassunte e nell'avvio del processo.
2. Avverso la decisione di primo grado hanno presentato appello sia l'imputata G.S. sia, ai soli effetti civili, la parte civile A.B. nei confronti di A.F..
3. Con sentenza del 16 febbraio 2015 la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di G.S. in ordine alla contravvenzione di cui al capo A), perché estinta per prescrizione, conseguentemente eliminando la pena dell'ammenda che era stata inflitta; ha dichiarato A.F. responsabile, ai soli effetti civili, del fatto illecito di lesioni colpose di cui al capo C) in danno di A.B. e, per l'effetto, ha condannato A.F. a risarcire, in solido con l'imputata, il danno patito da A.B., rimettendo le parti per la liquidazione di tale danno davanti al giudice civile; ha provveduto sulle spese sostenute dalle parti civili, che ha posto a carico degli imputati soccombenti; ha confermato la decisione adottata dal Tribunale il 30 ottobre 2013 nel resto.
4. La sentenza della Corte di appello è stata impugnata da entrambi gli imputati.
4.1. La prof.ssa G.S., con ricorso presentato personalmente il 14 aprile 2015, ha dedotto due motivi.
4.1.1. In primo luogo, ha censurato la ritenuta manifesta illogicità della motivazione, che non terrebbe nel debito conto il rilievo che, poiché nessuno stato di ammaloramento visibile presentava il cancello e poiché la dirigente aveva incaricato quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione un esperto, l'ing. A.F., il quale, peraltro, ispezionato il cancello, nulla di anomalo aveva riscontrato, era da escludersi qualsiasi imprudenza, imperizia o negligenza da parte della donna.
4.1.2. In secondo luogo, ha contestato la mancata assunzione di una prova decisiva, essendo stata chiesta ai sensi dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., ma non ammessa, la deposizione della prof.ssa M.A.S..
4.2. A.F., tramite il proprio difensore, ha tempestivamente presentato ricorso, basato su di una articolate pluralità di motivi, ampiamente argomentati ed ulteriormente arricchiti nella memoria intitolata "motivi nuovi", fatta pervenire nella Cancelleria della Corte a mezzo fax il 19 dicembre 2015 e a mezzo posta il 28 dicembre 2015. Li si riassume schematicamente.
4.2.1. Come primo - e principale - motivo di ricorso si sostiene che la Corte di appello, nel ribaltare, sia pure ai soli effetti civili (essendo stata presentata impugnazione ex art. 573 cod. proc. pen.), la sentenza di primo grado avrebbe violato il principio giurisprudenziale secondo il quale, per capovolgere una decisione di assoluzione, è assolutamente necessaria una motivazione "rafforzata", particolarmente minuziosa e specifica che non si limiti a contrapporre alla prima lettura una ulteriore, diversa, lettura "alternativa" dei medesimi elementi ma che si sovrapponga, per così dire, "a tutto campo" alla precedente, individuando, con obbligo motivazionale peculiare, i punti specifici e le motivazioni per cui la precedente decisione è stimata erronea e non condivisibile (cfr. ricorso, pp. 2-14; memoria aggiuntiva, passim). La esposizione di tale motivo, ampiamente illustrata, è così strutturata: richiamo della giurisprudenza di legittimità sul cosiddetto obbligo rafforzato di motivazione (pp. 2-4 del ricorso); richiamo di interi passaggi motivazionali delle sentenze di primo e di secondo grado e confronto, anche testuale, tra le stesse, anche alla luce del contenuto di fonti di prova acquisite a dibattimento (pp. 5-12 del ricorso); richiamo di deduzioni difensive contenute in apposita memoria depositata il 16 febbraio 2015 in Corte di appello e, in ossequio al principio di auto-sufficienza del ricorso, nuovamente prodotta, deduzioni che - si assume - sarebbero state totalmente ignorate o in larga parte pretermesse dal giudice cui erano dirette (pp. 13-14 del ricorso).
4.2.2. Come ulteriore motivo di ricorso si lamenta violazione della legge penale e del principio di legalità per avere la Corte territoriale, ad avviso del ricorrente, condannato A.F. per cooperazione colposa in un reato che sarebbe esclusivamente attribuibile alla dirigente scolastica, della quale l'imputato era un mero consulente, così finendo per attribuire, in buona sostanza, all'ingegnere una "posizione di garanzia" che in verità per legge non gli sarebbe spettata (pp. 14-15 del ricorso).
4.2.3. Si censura, infine, la asserita violazione delle disposizioni sulle spese nei giudizi di impugnazione (art. 592 cod. proc. pen.): si sostiene, al riguardo, la illegittimità della condanna alle spese dell'imputato, che, non avendo riportato una previa condanna penale, non poteva, in quanto condannato ai soli effetti civili su impugnazione di parte privata, essere gravato delle spese; si lamenta anche la ritenuta illegittima duplicazione della condanna alle spese, essendo stato A.F. condannato, secondo quanto si legge nel ricorso, da un lato, a rifondere, in solido con G.S., le spese sostenute dalla p.c. A.B. in entrambi i gradi di giudizio, pari ad euro 7.050,00 oltre
accessori, e, dall'altro, a rifondere, sempre in solido con la coimputata, anche le spese di costituzione e difesa sostenute da A.B. nel secondo grado, liquidate in euro 1.800,00, oltre accessori; con indebita duplicazione di rimborsi a carico di A.F. e con conseguente, indebita, locupletazione della p.c. (pp. 16-17 del ricorso).
Diritto
Infatti la sentenza di appello, emessa all'udienza del 16 febbraio 2015 (cui era presente l'imputata: v. intestazione di sentenza), senza indicazione in dispositivo di un termine diverso da quello ordinario di quindici giorni e con motivazione concretamente depositata il giorno 2 marzo 2015, poteva essere impugnata (ai sensi del combinato disposto degli artt. 544, comma 2, e 585, comma 1, lett. b, e comma 2, lett. c, cod. proc. pen.) entro il trentesimo giorno a partire dal 3 marzo 2015 (16 febbraio 2015 + 15 gg. = 3 marzo 2015) e cioè entro il 2 aprile 2015, mentre è stata depositata in Cancelleria (v. timbro in calce all'atto di appello) il 14 aprile 2015.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna al pagamento delle spese processali e, non sussistendo ragioni ostative (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 186 del 13 giugno 2000), al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma, che si stima congrua, di mille euro.
2. Diverso il discorso da farsi in relazione al ricorso di A.F., per le ragioni di seguito specificate.
2.1. Deve premettersi che costituisce pacifico principio giurisprudenziale quello secondo il quale la motivazione della sentenza di riforma in grado di appello, tanto più ove si addivenga ad una condanna in secondo grado, deve essere particolarmente attenta.
Il principio viene espresso talora in termini meno assoluti, talaltra in termini più forti.
Si è specificato, infatti, che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. Un., n. 3748 del 12/07/2015, Mannino, Rv. 231679) e che non viola il principio dell' "oltre ogni ragionevole dubbio" la decisione del giudice di appello che riformi totalmente la sentenza assolutoria di primo grado valutando diversamente il medesimo compendio probatorio, purché delinei con adeguata motivazione le linee portanti del proprio alternativo percorso argomentativo, che metta in evidenza le ragioni di incompletezza o di incoerenza del provvedimento riformato (Sez. 2, n. 17812 del 09/04/2015, Maricosu, Rv. 263763).
Si è anche detto che «il ribaltamento dello statuto decisorio in sede di gravame [...] deve fondarsi non su una semplice divergenza di apprezzamento tra giudici "orizzontalmente" proiettati verso un - reciprocamente autonomo - sindacato dello stesso materiale di prova, ma sul ben diverso versante di un supposto "errore" di giudizio che l'organo della impugnazione reputi di "addebitare" al giudice di primo grado, alla luce delle circostanze dedotte dagli appellanti ed in funzione dello specifico tema di giudizio che è stato devoluto. Ad una plausibile ricostruzione del primo giudice, non può, infatti, sostituirsi sic et simpliciter, la altrettanto plausibile - ma diversa - ricostruzione operata in sede di impugnazione (ove così fosse, infatti, il giudizio di appello sarebbe null'altro che un mero doppione del giudizio di primo grado, per di più "a schema libero"), giacché, per ribaltare gli esiti del giudizio di primo grado, deve comunque essere posta in luce la censurabilità del primo giudizio; e ciò, sulla base di uno sviluppo argomentativo che ne metta in luce le carenze o le aporie che giustificano un diverso approdo sui singoli "contenuti" che hanno formato oggetto dei motivi di appello. La sentenza di appello, dunque, ove pervenga ad una riforma (specie se radicale [...]/ di quella di primo grado, deve necessariamente misurarsi con le ragioni addotte a sostegno del decisum dal primo giudice, e porre criticamente in evidenza gli elementi, in ipotesi, sottovalutati o trascurati, e quelli che, al contrario, risultino inconferenti o, peggio, in contraddizione, con la ricostruzione di fatti e della responsabilità poste a base della sentenza appellata» (così Sez. 2, n. 50643 de 18/11/2014, Fu e altri, Rv. 261327).
In termini ancora più netti, si è affermato che il principio per il quale, nel caso di riforma da parte del giudice di appello di una decisione assolutoria emessa dal primo giudice, il secondo giudice ha l'obbligo di dimostrare specificamente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati, trova applicazione persino in caso di radicale rovesciamento di una valutazione essenziale nell'economia della motivazione (Sez. 5, n. 35762 del 05/05/2008, Aleksi e altri, Rv. 241169), con affermazione che appare particolarmente apprezzabile, specie in considerazione del maggior rigore motivazionale che progressivamente si è ritenuto esistere nel caso di riforma in peius, anche in conseguenza della sollecitazione derivante dalla nota decisione Dan vs. Moldavia del 5 luglio 2011 della Corte europea dei diritti dell'uomo (i cui effetti sull'ordinamento interno, anche sotto il profilo della eventuale necessità di rinnovazione dell'istruttoria in appello, sono stati, da ultimo, evidenziati, da Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv. 264542; Sez. 3, n. 38786 del 23/06/2015, U. e altro, Rv. 264793; Sez. 5, n. 25475 del 24/02/2015, Prestanicola ed altri, Rv. 263903).
2.2. Ebbene, dovendosi fare applicazione nel caso di specie del principio richiamato, va preliminarmente osservato che, in effetti, la Corte territoriale si è basata sul medesimo materiale istruttorio valutato al Tribunale, per inferirne conseguenze opposte. In particolare, posto che è incontroverso che l'ing. A.F., dal punto di vista della condotta materiale posta in essere, ha avuto nel settembre 2008 l'incarico consulenziale di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell'istituto comprensivo statale "Castaldaccia", la cui dirigente era la prof.ssa G.S., e che l'ing. A.F. ha svolto dei sopralluoghi e degli accertamenti, compendiati nel documento di valutazione dei rischi, con allegati, tra i quali le schede valutative, depositato presso la scuola il 15 ottobre 2008, documento nel quale descrive una certa situazione di fatto ed indica, con determinate espressioni, alcune situazioni di rischio, è soltanto sulla valutazione del rilievo, in termini di liceità (pp. 15-18 della sentenza del Tribunale) ovvero di colpa penalmente significativa (pp. 11-13 della sentenza di secondo grado) del comportamento dell'imputato che, a ben vedere, divergono i due testi motivazionali.
2.3. Così stando le cose e passando a tirare le fila del ragionamento sinora condotto, deve rilevarsi che la Corte di appello, in realtà, ha valorizzato solo ed esclusivamente l'elemento documentale costituito dalla relazione scritta redatta dall'imputato, sicché - pacificamente - non è necessaria la rinnovazione dell'istruttoria (cfr. Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261566; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260234; Sez. 2, n. 13233 del 25/02/2014, Trupiano, Rv. 258780; Sez. 2, n 29452 del 17/05/2013, Marchi e altri, Rv. 256467).
Ciò posto, ha evidenziato la Corte di appello (alle pp. 9-12 della sentenza) che l'imputato, nel segnalare nel suo scritto del 15 ottobre 2008 (documento di valutazione dei rischi, acronimo: D.V.R.) vaghi problemi alla "recinzione esterna dell'edificio", evidentemente comprensiva di muri, cancelli, ringhiere e quant'altro, recinzione esterna descritta come connotata da "diffuso ammaloramento", peraltro visibile ad occhio nudo, con particolare riferimento proprio al cardine inferiore sinistro (quello che aveva ceduto), non poteva certo specificamente riferirsi al cancello in questione, anche perché l'imputato, volendo riferirsi ad un altro cancello dell'immobile, sito in un altro punto, lo aveva in altra parte del documento specificamente individuato; e, inoltre, che la verifica sulla stabilità del cancello in questione era stata superficialmente svolta dall'ing. A.F. soltanto mediante l'impiego, in un'occasione, di un cacciavite, a mo' di "sonda", su di un ferro del cancello, con una tecnica, cioè, all'evidenza, troppo grossolanamente approssimativa per potere avere una qualche validità tecnica ed una qualche affidabilità dal punto di vista predittivo.
Osserva il Collegio che il ragionamento svolto dalla Corte territoriale al riguardo appare congruo, lineare, immune da censure di tipo logico e non scalfito dalle censure del ricorrente.
Quanto all'argomento difensivo, svolto nel ricorso (alle pp. 7 e 9, con riproposizione peraltro di un argomento già speso alla p. 6 della memoria depositata nella fase dell'appello), secondo cui l'ingegnere, che intendeva riferirsi al cancello, si sarebbe dovuto necessariamente adattare agli spazi precostituiti della modulistica ministeriale adoperata come schema per la relazione, è agevole osservare che, data l'importanza del ruolo assegnato dalla dirigente scolastica all'ing. A.F., appunto quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una scuola elementare, l'incaricato non poteva certo, burocraticamente, assolvere all'incombenza limitandosi a spingere con un cacciavite su di un ferro di un vecchio cancello e a compilare un modellino ministeriale definendo, imprecisamente, uno dei due cancelli come recinzione esterna genericamente malmessa (v. foglio n. 344 del fascicolo), senza preoccuparsi più seriamente della sicurezza dei bambini, oltre che dei numerosi genitori e lavoratori della scuola che ogni giorno varcavano quella soglia (pp. 9 ed 11 della sentenza di appello), il rispetto per l'incolumità dei quali avrebbe dovuto indurre l'imputato, quantomeno, ad adattare gli spazi di un formulario ministeriale per inserirvi parole di chiarezza a proposito del rischio che derivava da un cardine di un cancello in cattive condizioni.
3. Resta da esaminare l'ulteriore argomentazione difensiva (di cui si è dato atto al par. n. 4.2.2. del "ritenuto in fatto") incentrata sull'asserita esclusiva responsabilità della dirigente scolastica: assume infatti la difesa essere stata violata la legge penale, con particolare riferimento al principio di legalità, per avere la Corte territoriale condannato l'ing. A.F. per cooperazione colposa in un reato che sarebbe esclusivamente attribuibile alla dirigente scolastica, della quale l'imputato era un mero consulente, così finendo per attribuire, in buona sostanza, all'ingegnere una "posizione di garanzia" che per legge non gli sarebbe spettata.
L'assunto è impreciso, inconcludente ed incondivisibile. Trascura, infatti, di considerare adeguatamente l'importanza del ruolo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in quanto il datore di lavoro, normalmente a digiuno (come peraltro nel caso di specie) di conoscenze tecniche, è proprio concretamente avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che ottempera all'obbligo giuridico di analizzare e di individuare, secondo l'esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno del luogo di lavoro (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261109). Con la conseguenza che «in tema di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri» (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Epenhahan e altri, Rv. 261107).
Ebbene, la sentenza di appello delinea in modo chiaro la pozione di garanzia ed il ruolo, tutt'altro che defilato e secondario, e, anzi, di centrale importanza, dell'ing. A.F. sul quale, proprio in quanto dotato di specifiche competenza tecniche che non rientravano nel profilo professionale della preside, l'istituzione scolastica aveva il diritto di fare pieno affidamento (nel caso di specie risultato malriposto) nella individuazione di possibili fonti di pericolo per la popolazione scolastica.
4. Infondata anche il motivo di ricorso incentrato sulla distribuzione delle spese tra le parti private in quanto: le conseguenze della soccombenza processuale sono, in linea di massima (salvi solo gli adattamenti necessariamente derivanti dalla natura di parte pubblica del Pubblico Ministero), comuni ad entrambi i rami dell'ordinamento; la solidarietà passiva è uno strumento per rafforzare la posizione del danneggiato; la segnalata aporia si risolve, per il resto, in un'imprecisione del dispositivo di secondo grado comunque agevolmente superabile, essendo la somma di 1.800,00 euro evidentemente inclusa, come una parte del tutto, nel più ampio importo di euro 7.050,00, oltre accessori, che va refusa complessivamente a A.B. Antonino per le spese necessarie per far valere il proprio diritto (senza, insomma, che i 1.800,00 euro si debbano aggiungere ai 7.050,00).
5. Consegue dalle considerazioni svolte il rigetto del ricorso di A.F. e la condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali ed alla refusione delle spese sostenute dalle parti civili A.B. e G.M.O., liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di A.F. e lo condanna al pagamento delle spese processuali per questo giudizio di legittimità in favore delle parti civili, che liquida in 2.500,00 euro oltre accessori come per legge per ciascuna delle due parti A.B. e G.M.O. .
Così deciso il 15/01/2016.
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Cassazione Penale Sez. 4 13 maggio 2016 n. 20051.pdf |
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