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Sentenza CS n. 4358/2020

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Sentenza CS n. 4358/2020

Pubblicato il 07/07/2020 

La volumetria di una cisterna idrica non può essere recuperata ai fini di una edificazione residenziale perché costituisce volume tecnico

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FATTO e DIRITTO

Nel 2017 la società appellata ( all’esito di un pregresso e articolato contenzioso) ha richiesto al comune di Cerreto Guidi il rilascio di un permesso di costruire per demolizione di un immobile esistente sito in zona paesaggisticamente vincolata e ricostruzione di una abitazione monofamiliare.

Secondo quanto risulta dagli atti, in origine detto immobile era costituito da un annesso agricolo con pertinenze e cioè da un deposito attrezzi agricoli ( poi demolito nel 2002) con sottostante serbatoio parzialmente interrato.

Il comune nell’aprile del 2018 ha però respinto la richiesta, rilevando che “la volumetria del fabbricato originario, trattandosi di volume tecnico, così come definito nell’allegato A (definizioni tecniche di riferimento) al dpgr 11.11.2013 n. 64/R” non potesse essere recuperata per la realizzazione di un nuovo fabbricato”.

La società ha impugnato tale diniego avanti al TAR Toscana, il quale con la sentenza in epigrafe indicata ha in sostanza accolto il gravame, rilevando che il manufatto esistente non poteva qualificarsi come volume tecnico.

La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello oggi in esame dal soccombente comune il quale ne ha chiesto l’integrale riforma, previa sospensione dell’esecutività, a tal fine deducendo due motivi di impugnazione.

Si è costituita in resistenza la società che ha chiesto il rigetto dell’avverso gravame e ha riproposto la domanda di condanna del comune al rilascio del provvedimento.

Con ord.za n. 4252 del 2019 la Sezione ha accolto l’istanza cautelare.

Le Parti hanno depositato memorie e note di replica insistendo nelle già rappresentate conclusioni.

Alla Udienza del 18 giugno 2020 l’appello è stato trattenuto in decisione.

L’appello è fondato e va pertanto accolto.

Con il primo motivo l’appellante deduce che il manufatto residuo costituisce un volume tecnico e non esprime quindi volumetria suscettibile di recupero mediante demolizione e ricostruzione.

Il mezzo è fondato.

Come sopra esposto, l’immobile rurale in controversia constava in origine di una porzione fuori terra ( adibita a deposito rurale) e di un sottostante serbatoio, parzialmente interrato.

Come accertato dagli operatori della Polizia Locale mediante sopralluogo nel 2013, il deposito fuori terra era stato però demolito nel 2002 residuando dunque ( come si evince dalle foto allegate al verbale fidefaciente) solo la cisterna parzialmente interrata la cui copertura era all’epoca utilizzata come parcheggio auto.

Peraltro anche da istanza proposta nel 2015 dalla Ditta risulta in sostanza che il manufatto in questione costituiva serbatoio o cisterna per la raccolta delle acque piovane.

Ciò chiarito in punto di fatto, si ricorda che secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente i c.d. volumi tecnici sono quelli esclusivamente adibiti alla sistemazione di impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione e che non possono essere ubicati all'interno della parte abitativa.

In relazione a tale ultimo aspetto la Corte di Cassazione ha precisato che, ai fini della nozione di « volume tecnico », assumono valore tre ordini di parametri: il primo, positivo e funzionale, attiene al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, consistono, da un lato, nell'impraticabilità di soluzioni progettuali diverse — nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte abitativa — e dall'altro lato, in un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.

Da ciò consegue che rientrano nella nozione in parola solo le opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, mentre non sono riconducibili alla stessa i locali, in specie laddove di ingombro rilevante, oggettivamente incidenti in modo significativo sui luoghi esterni. ( ad es. Cass. penale n. 7217 del 2011).

In analoga prospettiva, la prevalente giurisprudenza amministrativa ha precisato che si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all'interno dell'edificio. ( ad es. VI Sez. n. 175 del 2015).

Come si vedrà meglio in seguito, l’importanza della qualificazione di un volume come “tecnico” sta nel fatto che i volumi tecnici – purchè in rapporto di funzionalità necessaria rispetto alla costruzione cui ineriscono – non vanno computati nel calcolo della volumetria massima consentita, in quanto per definizione essi non generano autonomo carico urbanistico.

Applicando queste coordinate interpretative al caso in controversia, ne risulta che il manufatto in questione è proprio un volume tecnico, sussistendo con evidenza i tre parametri individuati dalla concorde giurisprudenza penalistica e amministrativa come necessari per tale qualificazione.

Non è quindi condivisibile la tesi del TAR secondo cui solo i volumi destinati ad ospitare impianti tecnici ( idrico, termico, elettrico etc.) possano essere qualificati come volumi tecnici, essendo evidente che anche un serbatoio idrico o di raccolta acque come quello in esame costituisce nei sensi anzidetti un volume tecnico.

Tanto risulta del resto ( oltre che dalla fondamentale circolare del Ministero Lavori Pubblici 2474/1973) proprio dall’Allegato al D.P.G.R. Toscana n. 64R/2013 (Regolamento di attuazione dell'articolo 144 della legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1) secondo cui possono definirsi volumi tecnici – tra l’altro – proprio “le cisterne e i serbatoi idrici”.

Peraltro, come evidenzia lo stesso Allegato con definizione del tutto calzante rispetto al caso in controversia, i volumi tecnici hanno caratteristiche morfotipologiche che ne attestano in modo inequivocabile l'utilizzo, e possono essere sia esterni che interni all'involucro edilizio di riferimento, parzialmente o totalmente interrati, o collocati fuori terra, oppure posti al di sopra della copertura dell'edificio.

Alla stregua di quanto esposto, era evidentemente nel giusto il comune quando ha qualificato il manufatto in questione come volume tecnico con la conseguenza che lo stesso - come evidenziato nel diniego - non esprimeva volumetria suscettibile di sostituzione o recupero ai fini di una edificazione residenziale, in quanto la ricostruzione di un edificio demolito presuppone proprio il recupero di una volumetria edilizia legalmente preesistente.

Né può ritenersi che il volume da recuperare fosse quello del deposito cui il serbatoio ineriva in quanto – alla stregua della normativa applicabile ratione  temporis – gli interventi di ristrutturazione postulavano ordinariamente una contestualità fra la fase di demolizione e quella di ricostruzione, contestualità non ravvisabile nella fattispecie visto che il deposito era stato demolito (peraltro senza titolo, a quanto risulta) da oltre un decennio.

Certamente l’art. 3 T.U. edilizia ricomprendeva già all’epoca nell’ambito della ristrutturazione la ricostruzione di edifici ( o parti di essi) già demoliti o crollati: ma l’applicabilità di tale previsione postulava la dimostrazione da parte dell’istante della consistenza originaria dell’edificio da ricostruire.

Nel caso all’esame, invece, la Ditta nulla ha allegato al riguardo nella domanda di permesso, specificando invece trattarsi della ristrutturazione di edificio “esistente”.

Ne consegue che in nessun modo l’edificio da ristrutturare può identificarsi nel deposito agricolo preesistente, il permesso richiesto riguardando dunque solo la sostituzione del serbatoio.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello del comune va pertanto accolto, con integrale riforma della sentenza impugnata e rigetto delle impugnative di primo grado.

La domanda di condanna del comune al rilascio del titolo, qui riproposta dalla appellata, va di conseguenza respinta.

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