Cassazione Penale Sent. Sez. 4 n. 50293 | 07 Novembre 2018
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Omessa formazione e omessa valutazione del rischio da schiacciamento
Infortunio mortale con una pesante lastra di marmo
Penale Sent. Sez. 4 Num. 50293 Anno 2018
Presidente: DOVERE SALVATORE
Relatore: TORNESI DANIELA RITA
Data Udienza: 14/06/2018
1. Con sentenza emessa in data 26 maggio 2010 il Tribunale di Torre Annunziata dichiarava A.V. responsabile dei reati ascritti e lo condannava alla pena di anni tre di reclusione per i reati di cui ai capi a) e c) riuniti sotto il vincolo della continuazione; lo condannava, inoltre, per il reato di cui al capo b) alla pena di mesi quattro di arresto ed euro 5.000 di ammenda.
1.1. Al predetto imputato erano ascritti i reati:
capo a) di cui all'art. 589, comma 2, cod. pen. perché, in qualità di titolare della omonima ditta individuale di lavorazione e vendita del marmo sita in OMISSIS, cagionava, per colpa consistita nella violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui agli artt. 47, 48 e 49 d.lgs. 19 settembre 1944, n. 626, la morte del dipendente R.S., lavoratore straniero privo del permesso di soggiorno, in quanto non aveva fornito al predetto né i mezzi appropriati ed adeguati al lavoro di movimentazione manuale delle lastre di marmo nè le informazioni necessarie e non aveva organizzato la valutazione dei rischi e i posti di lavoro affinchè la lavorazione fosse sicura, cosicché il predetto spostava e sorreggeva da solo, senza l'ausilio dei mezzi meccanici pur presenti nell'azienda, una pesante lastra di marmo che gli rovinava addosso schiacciandolo;
capo b) di cui all'art. 22, comma 12, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, perché, in qualità di titolare della omonima ditta individuale di lavorazione e vendita del marmo sita in OMISSIS, occupava alle proprie dipendenze R.S., lavoratore straniero privo del permesso di soggiorno;
capo c) di cui agli artt. 47, 48, 49, 89 d.lgs. 19 settembre 1944, n. 626 perché, in qualità di titolare della omonima ditta individuale di lavorazione e vendita del marmo sita in OMISSIS, non adottava le misure organizzative necessarie o i mezzi appropriati (in particolare attrezzature meccaniche), per evitare la necessità di una movimentazione manuale delle lastre di pietra da parte dei lavoratori né forniva ai lavoratori le misure organizzative e le informazioni necessarie ed i mezzi adeguati.
In Pompei in data 16 novembre 2005.
1.2. La vicenda processuale veniva così ricostruita dal giudice di primo grado.
R.S., privo di permesso di soggiorno, prestava la sua quotidiana attività lavorativa alle dipendenze della ditta di A.V. avente ad oggetto la lavorazione del marmo, pur se non regolarmente inquadrato, così come comprovato dalle circostanziate dichiarazioni rese dalla sua compagna B.N. anche in ordine all'orario, alle mansioni svolte e al trattamento retributivo e, dunque, ritenute pienamente attendibili per la coerenza intrinseca del narrato. Significativi riscontri oggettivi venivano ravvisati nel fatto che la vittima, al momento dell'incidente avvenuto nell'area destinata allo stoccaggio, indossava scarpe con punta rinforzata in acciaio; inoltre, nelle tasche dei pantaloni aveva un pastello a cera e una matita di lavoro e sui suoi abiti era sedimentata una polvere sottile di marmo.
L'incidente era avvenuto mentre il R.S. stava eseguendo, insieme all'altro dipendente L.V. (cognato dell'imputato), le operazioni di spostamento manuale di una lastra di marmo al fine di visionare la qualità dei fogli di cui era composta, contravvenendo alle cautele previste dalla normativa antinfortunistica che prevede, per tali operazioni, quantomeno la imbracatura con apposite funi, cinghie e corde, per cui essa si ribaltava causando lo schiacciamento del torace della vittima.
Gli ispettori UPG dell'AsI - Na n. 5 constatavano, inoltre, che la formazione, informazione ed addestramento del personale alle dipendenze della ditta di A.V. era del tutto insufficiente e che le precauzioni indicate nel documento di valutazione dei rischi e i mezzi predisposti per prevenire gli infortuni erano carenti.
Nel descritto contesto veniva valutata priva di credibilità la versione dei fatti resa dai testi C.P. e V.E. i quali sostenevano, invece, che il R.S. era incaricato di svolgere lavori occasionali in campagna all'interno della confinante proprietà di G.V., padre dell'imputato, e che, solo per caso, quel giorno L.V. gli aveva chiesto, del tutto arbitrariamente e in un ambito del tutto estraneo alle sue mansioni, un aiuto nelle operazioni di spostamento di una lastra di marmo. Conseguentemente veniva ritenuta infondata la prospettazione difensiva incentrata sull'asserito comportamento abnorme, eccezionale ed imprevedibile della vittima, tale da interrompere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo.
2. Con sentenza emessa in data 22 giugno 2016 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti di A.V. in relazione ai reati di cui ai capi b) e c) per decorso dei termini prescrizionali e confermava la condanna per il reato di omicidio colposo commesso con violazione della normativa antinfortunistica in danno del dipendente R.S. (capo a), rideterminando la pena in anni due di reclusione.
3. A.V. propone ricorso per cassazione avverso la predetta sentenza elevando i seguenti motivi.
3.1. Con il primo motivo denuncia il vizio di violazione di legge e il vizio motivazionale in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena evidenziando l'omessa pronuncia, da parte del giudice di appello, sulla richiesta formulata nell'atto di impugnazione.
3.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di violazione di legge e il vizio motivazione in relazione all'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche nonostante il suo comportamento collaborativo.
3.3. Con il terzo motivo assume che la sentenza impugnata presenta vizi di violazione di legge con riferimento al d.lgs. n. 626/1994 e i vizi motivazionali sostenendo che era stato il lavoratore L.V., di sua esclusiva iniziativa, a coinvolgerlo imprudentemente nelle attività lavorative determinandone, così, la morte.
4. Con memoria depositata in data 29 maggio 2018 il ricorrente articola motivi nuovi, ai sensi dell'art. 585, comma 4, cod. proc. pen., in relazione al motivo sub 3) del ricorso principale invocando l'applicazione dei principi di diritto statuiti dalla Suprema Corte (Sez. 4, n. 36882 dell'11/09/2015) che, nel procedere ad una ricognizione della legislazione antinfortunistica, ha dato conto dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia caratterizzata dal passaggio da un modello "iperprotettivo", incentrato sulla figura del datore di lavoro, investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.
Ribadisce che dalle emergenze processuali risulta comprovato che il R.S. non era un dipendente della sua ditta individuale ma svolgeva le mansioni di "tuttofare" nell'ambito della proprietà agricola di suo padre, G.V., e rimarca la circostanza che era stato suo cognato, L.V., dipendente della sua ditta, ad averlo inopinatamente coinvolto in attività del tutto esorbitanti ed estranee alle mansioni per il quale era stato assunto. Sostiene, dunque, che a fronte del pieno assolvimento, da parte sua, all'obbligo datoriale di formazione ed informazione dei dipendenti, il R.S. aveva tenuto una condotta abnorme, esorbitante ed imprevedibile rispetto al procedimento lavorativo, alle direttive organizzative ricevute e alla comune prudenza.
1. Il ricorso è fondato nei limiti che vengono qui di seguito esposti.
2. Il terzo motivo è infondato in quanto propone una ricostruzione alternativa dell'evento, sollecitandone una rivisitazione non consentita in questa sede, peraltro esclusa da entrambe le sentenze di merito le cui argomentazioni, trattandosi di c.d. doppia conforme, confluiscono in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre fare riferimento per valutare della congruità della motivazione.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. 3, n. 12110 del 19/03/2009; Sez. 3, n. 23528 del 6/6/2006, Rv. 234155). Ed ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U. n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
Più di recente è stato ribadito come, ai sensi di quanto disposto dall'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13/02/2013, Rv. 255542).
In altri termini, non vi è la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali, e ciò anche alla luce del vigente testo dell'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46, in virtù del quale il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Del resto costituisce ius receptum il principio secondo cui la valutazione della prova testimoniale è una questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell'Insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Rv. 262575); circostanza questa non ricorrente nel caso in esame.
2.1. Alla stregua di quanto sin qui esposto si osserva che risulta insindacabile la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito che, coerentemente alle emergenze istruttorie, hanno ritenuto comprovato il fatto che R.S. prestava quotidianamente la sua attività alle dipendenze della ditta individuale di A.V., pur non essendo regolarmente inquadrato, e che l'incidente è avvenuto proprio nell'ambito del predetto contesto lavorativo.
2.2. Quanto ai rilievi difensivi in ordine all'asserita condotta abnorme ed imprevedibile che avrebbe tenuto il R.S., ribaditi anche nella memoria del 29 maggio 2018, è sufficiente osservare quanto segue.
Tale motivo non considera che il comportamento del lavoratore è imprevedibile quando non è preventivamente immaginabile e non già quando l'irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo, risolvendosi nel fare l'esatto contrario di quel che si dovrebbe fare per non incorrere in infortuni ( Sez. 4, n. 37001 del 07/07/2003, Rv. 225957).
La Suprema Corte (cfr. Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 - dep. 2017- Rv. 269603) ha precisato che, se è vero che sul lavoratore incombe l'obbligo di osservare le prescrizioni cautelari che a lui si indirizzano, il piano della rimproverabilità del lavoratore per la violazione commessa e quello della causalità tra la condotta trasgressiva del datore di lavoro e le lesioni subite da quel lavoratore non coincidono, come dimostra il semplice rilievo che la violazione prevenzionistica del lavoratore, osservata sotto la diversa prospettiva, può risultare un esito proprio di quella imprudenza o imperizia che il sistema di tutela prevenzionistica incorpora come un ordinario fattore di rischio da considerare, valutare e neutralizzare od attenuare.
Va inoltre osservato che un consolidato indirizzo giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, suggerisce di abbandonare il criterio dell'imprevedibilità del comportamento del lavoratore nella verifica della relazione causale tra condotta del reo ed evento, perché ciò che davvero rileva è che tale condotta attivi un rischio eccentrico o, comunque, esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto al quale viene attribuito l'evento (cfr. per tutte, Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261106). E' stato ulteriormente sottolineato che quando l'evento sia riconducibile alla violazione di molteplici disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi esorbitante dall'area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia in quanto l'inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della
sfera di rischio sino a ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall'inerzia del datore di lavoro ( Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017 - dep. 2018 -, Rv. 273247).
2.3. Ciò posto, si osserva che i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione di tali coordinate ermeneutiche in quanto hanno diffusamente evidenziato che A.V. non ha valutato il rischio di schiacciamento a seguito del ribaltamento di tavole di marmo e, di conseguenza, non ha previsto le correlate misure antinfortunistiche né ha provveduto a fornire ai lavoratori appositi strumenti di lavoro. Ed ancora, il R.S., al pari degli altri lavoratori, non era stato informato sia sui rischi che sulle procedure adeguate per svolgere in sicurezza le relative operazioni di movimentazione.
Pertanto, del tutto correttamente, la Corte distrettuale ha rigettato gli assunti difensivi posto che, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato, oltre che dall'assenza o dall'inidoneità delle misure di prevenzione, anche dalla mancata formazione del dipendente, nessuna efficacia causale va attribuita al comportamento del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancata comunicazione da parte del datore di lavoro di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.
3. Il secondo motivo è infondato atteso che la Corte distrettuale ha valorizzato, ai fini del diniego delle attenuanti generiche, il comportamento processuale tenuto dal A.V. sottolineando, in coerenza con le emergenze processuali, che il predetto non ha offerto alcuna collaborazione all'accertamento dei fatti «essendosi sottoposto all'esame solo all'ultima udienza e negando addirittura che la vittima fosse un suo lavoratore».
Il provvedimento impugnato appare collocarsi nell'alveo del costante dictum della giurisprudenza di legittimità in subiecta materia che ha più volte chiarito che, ai fini dell'assolvimento del relativo obbligo di motivazione, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti ma è sufficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati gli altri da tale valutazione (Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013, Rv. 256172).
4. Il primo motivo merita, invece, accoglimento posto che, a fronte della specifica richiesta contenuta nell'atto di appello di concessione dei doppi benefici, la Corte distrettuale, pur obbligata ad esaminare la questione sottoposta al suo esame, ha omesso di pronunciarsi al riguardo (Sez. 2, n. 15930 del 18/04/2016, Rv. 266563; Sez. 1, n. 34661 del 30/06/2015, Rv. 264759; Sez. 3, n. 23228 del 12/04/2012, Rv. 253057)
5. Ne consegue che va disposto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Napoli affinchè valuti, con giudizio che implica ulteriori accertamenti in fatto, e dunque non surrogabile in questa sede, se sussistono le condizioni per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Si dispone la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Napoli per nuovo esame sul punto. Il ricorso va rigettato nel resto.
Annulla il provvedimento impugnato limitatamente all'omessa statuizione in merito alla sospensione condizionale della pena e dispone trasmettersi gli atti alla Corte di appello di Napoli per nuovo esame sul punto.
Rigetta nel resto.
Così deciso il 14 giugno 2018
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