Cassazione Civile Sent. Sez. 1 n. 2915 del 05 dicembre 2017
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Cassazione Civile Sent. Sez. 1 n. 2915 del 05 dicembre 2017
La condotta abnorme del lavoratore può esonerare da responsabilità il DL - fallimento e credito per infortunio mortale -.
Civile Ord. Sez. 1 Num. 29115 Anno 2017
Presidente: NAPPI ANIELLO
Relatore: LAMORGESE ANTONIO PIETRO
Data pubblicazione: 05/12/2017
O.T., vedova del defunto D'A.R., in proprio e quale genitore esercente la potestà sui figli minori D'A. Silvia ed Elisa, nonché il figlio maggiorenne D'A. Daniele hanno proposto opposizione allo stato passivo del Fallimento Duegi Prefabbricati srl, dal quale era stato escluso un credito risarcitorio per i danni jure hereditatis e iure proprio, patrimoniali e non, da essi congiunti sofferti a causa del grave infortunio sul lavoro occorso a D'A.R., in data 30 maggio 2009, che ne aveva provocato la morte dopo cinquanta giorni di agonia.
Il Tribunale di Cuneo, con decreto del 2 novembre 2012, ha accertato, sulla base di varie circostanze emerse all'esito dell'istruttoria compiuta mediante l'assunzione di prove testimoniali e documentali, che il D'A., al momento dell'infortunio, stava lavorando alle dipendenze della Duegi e che non poteva attribuirsi efficacia causale esclusiva al suo comportamento nel manovrare l'autocarro, essendo state insufficienti le misure di prevenzione adottate dal datore di lavoro; in considerazione del tempo trascorso tra l'incidente e la morte e della sofferenza psichica provata dalla vittima, rimasta lucida durante l'agonia, il Tribunale ha determinato equitativamente il danno morale, a titolo ereditario, in complessivi € 270.000,00, da ripartirsi secondo le diverse quote ereditarie, e lo ha ammesso in via privilegiata, a norma dell'art. 2751 bis c.c., in considerazione della natura del danno; ha ammesso in chirografo il danno non patrimoniale subito dai congiunti per lesione del rapporto parentale, quantificato equitativamente in € 250.000,00 per ciascuno; ha escluso l'esistenza di un danno patrimoniale differenziale rispetto a quello già indennizzato dall'Inail.Il Fallimento Duegi ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui si sono opposti gli intimati con controricorso.
Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 ss. c.c., 112 e 115 c.p.c., per avere violato il principio secondo cui, ai fini dell'ammissione al passivo del fallimento di un credito risarcitorio derivante da infortunio sul lavoro, è la parte offesa che deve allegare i fatti, indicare i mezzi di prova e dimostrare di avere ottemperato all'obbligo di rendere la prestazione lavorativa nel momento dell'infortunio da rapportare alla mansione effettivamente svolta, in quanto dovuta in virtù del contratto, e non al generico status di dipendente appartenente all'organico dell'imprenditore, mentre, nella specie, non era provato che la presenza del lavoratore in un cantiere estraneo alla sede della propria azienda fosse dovuta all'espletamento della propria attività alle dipendenze di quella stessa azienda.
Con il secondo motivo la Duegi ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c. e 115 c.c., per avere errato nell'attribuire soltanto ad essa l'obbligo di predisporre i mezzi di sicurezza del lavoro e per avere omesso di considerare che il materiale edile presente sul rimorchio non era stato da essa prodotto.
Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1227, 2087 c.c., per avere ritenuto irrilevante il comportamento imprudente del lavoratore e, quindi, erroneamente escluso il suo concorso colposo nella causazione dell'evento dannoso.
Il PG ha concluso per il rigetto del ricorso sulla base delle seguenti ragioni:
I primi due motivi, nonostante la rubrica, priva di efficacia vincolante (Cass. n. 7882 del 2006, n. 7981 dei 2007), prospetti una violazione di legge, denunciano in buona sostanza vizio di motivazione, in relazione all'accertamento della circostanza che D'A.R. rimase vittima dell'infortunio, mentre espletava una prestazione lavorativa per la società fallita, della quale era, peraltro, pacificamente dipendente.
[...]
Nessuna violazione della norma che governa l'onere probatorio (art. 2697 c.c.) è, altresì, riscontrabile. Nei nostro ordinamento, per consolidata giurisprudenza della Corte regolatrice, il principio generale di riparto dell'onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. deve essere, infatti, contemperato con il principio di acquisizione probatoria, che rinviene solida base, tra l'altro, nei canone costituzionale del giusto processo, in virtù del quale tutte le risultanze istruttorie acquisite al processo (quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si siano formate) concorrono alla formazione del convincimento del giudice (per tutte, Cass. n. 15162 del 2008, n. 2285 del 2006, n. 1112 del 2003, n. 5126 del 2000). Il Tribunale null'altro ha fatto che interpretare e valutare le risultanze processuali acquisite, pervenendo alla conclusione che le stesse dimostravano che il D'A. stava lavorando per la società fallita.
Relativamente alla valorizzazione di presunzioni, è sufficiente ricordare che il giudice del merito può fondare, anche in via esclusiva, il proprio convincimento su di esse (ex plurimis, Cass. n. 3837 de/2001; n. 491 del 2000) e la presunzione può essere basata anche su un singolo elemento, purché preciso e grave (Cass. n. 4406 dei 1999). Con tale ultimo carattere «non si esige [poi] che l'esistenza dei fatto (ignoto), dedotta per presunzione, assuma un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente (...) una "ragionevole” certezza (anche probabilistica)» (Cass. n. 23079 del 2005, n. 4168 del 2001, n. 9782 del 1999). E' possibile «ravvisare ordinaria connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti, secondo regole di esperienza, sia pure con qualche margine di opinabilità» (Cass. n. 3837 del 2001), non occorrendo che «l'esistenza del fatto ignoto rappresenti la unica conseguenza possibile», poiché è applicabile la regola dell'inferenza probabilistica, non quella dell'inferenza necessaria (Cass. n. 2632 del 2014, n. 5082 del 1997), ferma l'impossibilità di attribuire valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Cass. n. 2632 del 2014).
L'apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione non è censurabile in sede di legittimità, sempre che la motivazione adottata appaia congrua dai punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni (Cass. n. 15219 del 2007, n. 1216 del 2006, n. 3974 del 2002). Tanto si riscontra nella specie, vieppiù in considerazione del testo dell'art. 360 n. 5 c.p.c. qui applicabile, avendo il Tribunale logicamente argomentato in ordine ai convergenti elementi (molteplici) comprovanti la conclusione resa, anche in ordine alle circostanze oggetto del secondo motivo, che palesemente si risolvono in una mera, inammissibile, critica dell'apprezzamento di fatto del giudice del merito.
Il terzo motivo censura la sentenza nella parte in cui ha accertato la causa dell'infortunio, negando il concorso di colpa del D'A..
[...]
Peraltro, neppure è qualificabile come abnorme il comportamento del lavoratore che intervenga, nell'esecuzione delle ordinarle mansioni assegnate, su un macchinario per effettuare una riparazione, qualora ciò sia dettato da una necessità, non solo possibile, ma anche probabile del procedimento lavorativo (Cass. n. 20533 del 2015).
Tali principi, pacifici nella giurisprudenza della Corte, sono stati osservati dal Tribunale che, per affermare la responsabilità esclusiva del datore di lavoro, ha valorizzato l'accertamento contenuto nella perizia assunta nel processo penale (non contestata in quello civile), chiaro ed univoco nel ricondurre l'evento ad «un insieme di situazioni dipendenti dalla inadeguatezza in termini di sicurezza del mezzo utilizzato», precisamente identificate (consistenti nel difetto della «presa di forza su scambio» e nella modalità di installazione della stessa). E' dunque evidente il riferimento a violazioni inerenti le misure antinfortunistiche ascrivibili al datore di lavoro. La circostanza che è stata riscontrata dal perito di «una certa imprudenza del lavoratore» è significativa, ma in senso opposto alla tesi del ricorrente. Essa infatti dimostra l'inesistenza del carattere dell'abnormità della condotta (nei termini dianzi descritti) e, al più, un'imprudenza nell'utilizzazione del «selettore» inidonea ad escludere la responsabilità esclusiva del datore di lavoro, siccome peraltro ricollegata ad una modalità resa possibile dalle carenze (pure evidenziate dal perito) concernenti le misure di funzionamento (e sicurezza) della «presa di forza».
Queste argomentazioni sono integralmente condivise dal Collegio.
Pertanto, il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alle spese, liquidate in € 12.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre accessori dovuti per legge. Roma 13 luglio 2017
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