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Sentenza Tribunale di Vicenza 13 maggio 2025 - PFAS e malattia professionale

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Sentenza Tribunale di Vicenza 13 maggio 2025   PFAS e malattia professionale

Sentenza Tribunale di Vicenza 13 maggio 2025 - PFAS e malattia professionale

ID 24044 | 29.05.2025 / In allegato

Per la prima volta un tribunale ha certificato un decesso come attribuibile alla contaminazione ai Pfas. Si tratta della morte di P. Z., che ha lavorato come operaio alla Miteni di Trissino dal 1979, quando l’azienda era ancora la Rimar dei Marzotto, fino al 1992. Z. è deceduto nel 2014, in seguito a un tumore della pelvi renale. A tal proposito, lo scorso martedì il tribunale di Vicenza ha emesso una sentenza storica, che dà ragione agli eredi dell’uomo, i quali avevano fatto causa all’Inail: Zenere è la prima persona che un giudice riconosce deceduta a causa dell’esposizione ai Pfoa e Pfos, che l’uomo avrebbe respirato, ingerito e che sarebbero entrati a contatto con la sua pelle durante l’orario di lavoro.

«Si tratta della prima sentenza in assoluto su questo tema, calata su un caso specifico, preciso e documentato - spiega l’avvocato Adriano Caretta, che oltre a tutelare la famiglia di Zenere porta avanti la causa per conto dell’Inca Cgil di Vicenza -. La documentazione riguarda sia le mansioni di lavoro svolte sia il nesso tra queste e la malattia che ha portato al decesso. Questa sentenza non agisce sulle responsabilità, ma sulla correlazione tra lavoro e malattia: la materia è di natura previdenziale e attiene appunto a quelli che sono i diritti previsti dalla tutela Inail».

La sentenza arriva nei giorni in cui davanti alla corte d’Assise del tribunale di Vicenza si sta concludendo proprio il processo ai 15 manager della Miteni, accusata di essere la fonte della contaminazione da Pfas che ha colpito circa 350 mila persone residenti nelle province di Vicenza, Padova e Verona.
...

Tribunale Vicenza Sez. Lav. del 13 maggio 2025 n. 251

Sentenza

Fatto Diritto

Con ricorso iscritto in data 16.12.2022 gli eredi di Z.P. chiedevano: "1. Per quanto dichiarato in premessa, accertare che il decesso del de cuius è conseguenza della malattia professionale contratta a seguito dell'attività svolta e, per l'effetto, dichiarare il diritto della ricorrente alle prestazioni di legge previste dall'art. 85 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, come modificato dal D.Lgs. n. 38 del 2000; 2. per tali effetti, condannare la resistente: Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), (..) a corrispondere alla ricorrente le prestazioni di legge previste e quindi la rendita ai superstiti e l'assegno funerario, previa liquidazione degli stessi; 3. il tutto con maggiorazione degli interessi legali e rivalutazione dal centoventunesimo giorno successivo alla presentazione della domanda (06.12.2019) fino al saldo ai sensi dell'art. 16 - c. 6 della L. n. 412 del 1991 come modificato dall'art. 1 - c. 783 della L. n. 296 del 2006; 4. con condanna al pagamento di spese, diritti ed onorari del giudizio, da distrarsi ex art. 93 c.p.c. a favore dei sottoscritti procuratori che hanno anticipato le prime e non riscosso i secondi e, inoltre, hanno esercitato la prestazione professionale ai sensi dell'art. 9 della L. n. 152 del 2001". Sostenevano che il de cuius nel corso della propria attività lavorativa svolta presso M. S.p.a. dal 1979 al 1992 era stato esposto a sostanze perfluorurate e ad acidi polifluoroalchilici in conseguenza dei quali aveva sviluppato un carcinoma uroteliale che lo aveva condotto al decesso in data 12.4.2014, con conseguente diritto alla rendita ai superstiti ed all'assegno funerario. Deducevano, in particolare, che Z. si occupava della fase di neutralizzazione delle acque nel reparto Depurazione, collocato in una posizione adiacente al reparto ECF (elettroflorurazione) dove venivano prodotti i PFAS e i PFOA, con conseguente esposizione alle sostanze da lì aerodisperse.

Si costituiva l'Inail contestando il nesso di causalità fra il decesso di Z. e una patologia contratta nell'ambiente di lavoro per esposizione alle sostanze perfluoroalchiliche prodotte dal datore di lavoro (PFOA - acido perfluoroottanoico e PFOS - acido perfluoroottaansulforico), nonché la correlazione causale tra la presenza nell'organismo di queste sostanze e lo sviluppo della particolare neoplasia contratta che aveva causato il decesso dello stesso, peraltro essendo stata negata la rendita per malattia professionale in ordine alla neoplasia in questione. Sosteneva poi la mancata dimostrazione dell'esposizione a PFOA e PFOS in mancanza di misurazioni di concentrazione ambientale e stante la genericità di allegazioni sul punto, mancando quindi la prova del tipo di sostanze aerodisperse, della loro capacità di essere assorbite dall'organismo e comunque stante l'esposizione extra lavorativa derivante da inquinamento ambientale, in ogni caso mancando una legge di copertura scientifica sufficientemente radicata nella comunità medica idonea a stabilire una correlazione fra l'esposizione a dette sostanze e l'insorgenza del carcinoma da cui era affetto il de cuius. Concludeva quindi per il rigetto del ricorso, con vittoria delle spese di lite.

La causa, istruita documentalmente e oralmente e mediante consulenza tecnica medico-legale, previa concessione di termine per note, è così decisa.

Il ricorso è fondato è dev'essere accolto.

Ai sensi dell'art. 85 D.P.R. n. 1124 del 1965, per quel che qui interessa: "Se l'infortunio ha per conseguenza la morte, spetta a favore dei superstiti sotto indicati una rendita nella misura di cui ai numeri seguenti ragguagliata al 100 per cento della retribuzione calcolata secondo le disposizioni degli articoli da 116 a 120. Per i lavoratori deceduti a decorrere dal 1º gennaio 2014 la rendita ai superstiti è calcolata, in ogni caso, sul massimale di cui al terzo comma dell'articolo 116: 1) il cinquanta per cento al coniuge superstite fino alla morte o a nuovo matrimonio; in questo secondo caso è corrisposta la somma pari a tre annualità di rendita; 2) il venti per cento a ciascun figlio legittimo, naturale, riconosciuto o riconoscibile, e adottivo, fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età, e il quaranta per cento se si tratti di orfani di entrambi i genitori, e, nel caso di figli adottivi, siano deceduti anche entrambi gli adottanti. (...)". Ne consegue che, alla luce della norma citata, presupposti del diritto alla rendita ai superstiti sono, oltre ai requisiti soggettivi, la natura professionale della patologia nonché il nesso di causalità fra il decesso e l'infortunio o la malattia professionale. In particolare, secondo consolidata giurisprudenza, nel sistema dell'assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la presunzione di eziologia professionale di una malattia - presunzione che può essere superata dall'allegazione e dalla dimostrazione, da parte dell'Istituto assicuratore, che nel caso concreto l'infermità dipende da una causa extralavorativa oppure che la lavorazione alla quale il lavoratore sia stato addetto non abbia idoneità lesiva sufficiente a cagionare l'infermità - opera a favore dell'assicurato solo in riferimento alle malattie e alle lavorazioni tabellate, mentre per le malattie professionali non tabellate grava sul lavoratore l'onere di provare la derivazione della malattia da una causa di lavoro; nel caso, poi, di fattispecie costitutiva del diritto alla rendita ai superstiti e all'assegno funerario, è altresì necessaria la dimostrazione del nesso di causalità tra la malattia, che si assume contratta a causa del lavoro, e la morte" (Cass. 19312/2004).

Nel caso di specie, la patologia da cui era affetto il de cuius ed alla base del presente ricorso, - "carcinoma uroteliale papillare della pelvi renale"-, non è tabellata, con conseguente inapplicabilità del regime presuntivo.

Nondimeno, in virtù delle prove orali assunte e secondo quanto accertato dal collegio peritale nominato nel presente giudizio, si ritiene raggiunta la prova, con elevato grado di probabilità, del nesso di causalità fra l'ambiente in cui il ricorrente ha prestato la propria attività lavorativa dal 1979 al 1992 presso la M. S.p.a e la patologia in questione.

Invero, i testimoni sentiti, per quel che qui interessa, hanno dichiarato: "Il sig. Z. si occupava della fase di neutralizzazione delle acque nel reparto Depurazione; (...) il reparto dello Z. era affianco al reparto di elettrofluorazione; gli ambienti erano aperti; c'era il tetto ma perimetralmente non vi erano ostacoli; i due reparti erano separati da 5 metri, da una strada; Cap. 16. Confermo quanto ho appena detto il reparto dello Z. era adiacente al reparto ECF (elettroflorurazione); nel reparto ECF, a mezzo elettrolisi, si univano acido fluoridrico e fluoruro di capriloide e quindi, mediante tale processo di elettrolisi si producevano PFAS e PFOA; cap 17. si l'ho detto già, i due raparti di cui sto parlando, quello dello Z. e il reparto ECF, erano un unico grande spazio aperto (openspace), i due reparti erano coperti da un'unica tettoia che copriva il reparto ECF, il depuratore, il deposito fanghi e un piazzale adiacente" (cfr. testimonianza R.M.). Sul punto S.P. ha precisato: "erano due reparti divisi da una strada di transito sulla quale transitavano i muletti; la strada di transito non era coperta sopra" (..) "il tetto nel reparto ECF era di 5/6 metri, forse qualcosa in più; nel reparto dello Z. la tettoia sarà stata alta sui 4 metri". Lo stesso ha dichiarato F.G.. Alla luce delle predette dichiarazioni testimoniali, tutte concordanti sul punto, è emerso quindi che per tutto il periodo di lavoro svolto dal 1979 al 1992 Z. ha prestato la propria attività lavorativa presso il reparto di neutralizzazione delle acque, collocato in posizione adiacente al reparto di elettrofluorazione ove venivano prodotti PFAS e PFOA. In particolare i due reparti erano separati da una strada di circa cinque metri e, secondo quanto dichiarato, da S. e F. erano all'aperto, coperti ciascuno da una tettoia.

Inoltre, i testimoni sentiti hanno riferito in merito alle operazioni di pulizia dei reattori eseguite tramite rimozione delle incrostazioni di pece che si depositavano sul pacco di lamine di nichel che, considerato il numero delle celle elettrolitiche (10 o 11) e la frequenza con la quale andavano pulite (40-50 giorni), avveniva ogni otto-nove giorni (testimonianze S. e F.) e comportava un'elevata dispersione di fumi e sostanze. In particolare, R.M., addetto alle operazioni di pulizia nel 2000, ha dichiarato: "al momento dell'apertura della cella si disperdevano nell'aria fumi e acidi in grosse quantità che rendevano l'aria irrespirabile", come pure confermato da F.G.. S.P. ha dichiarato: "tale attività produceva odori ma devo anche dire che l'impianto era all'aria aperta; il pacco veniva portato in zona di lavaggio; il passaggio verso la zona di lavaggio comportava il transito davanti alla postazione dello Z.; poi il pacco veniva riportato nel reparto ECF e veniva ripulito manualmente ; ecco, tale operazione era fatta vicino alla postazione dello Z.; la prima parte della pulizia, quella con l'acqua, per eliminare il grosso, era fatta in una zona a circa 30 metri di distanza dalla postazione di Z.; tale prima fase era fatta in un posto che era sprovvisto dei tetto; la porzione di pulizia a mano era fatta nel reparto ECF che come detto era coperto; dopo l'anno 2000 anche la pulizia iniziale è stata fatta al coperto e c'era un impianto di aspirazione". Sul punto F.G. ha coonfermato: "al momento dell'apertura della cella si disperdevano nell'aria fumi e acidi in grosse quantità che rendevano l'aria irrespirabile. Successivamente il pacco veniva riportato al reparto ECF, stazionato e appeso per 3 - 7 giorni per ultimare la pulizia con un procedimento meccanico attraverso l'utilizzo di seghe manuali. Di solito ci si metteva tre giorni per pulire il pacco; su di un pacco lavoravano una o due persone".

Alla luce della posizione del reparto di neutralizzazione cui era addetto il ricorrente, è emerso che lo stesso, durante le operazioni di pulizia dei reattori e, in particolare, nella fase di pulizia manuale, era stato esposto, con frequenza settimanale, alla diretta esposizione mediante inalazione delle sostanze sprigionate dalle celle elettrolitiche, in cui, secondo i testimoni sentiti "venivano prodotti i PFAS e i PFOA" (testimonianza S.P.), e ciò in assenza di dispositivi di protezione. Invero, M.R., ha riferito: "Noi operatori addetti alla pulizia indossavano maschere antigas, non anche i colleghi che lavoravano nelle adiacenze. Anche Z. aveva in dotazione la maschera ma ciò era per le emergenze e quindi non era necessario metterla la maschera se non facevi lavori particolari", anche S.P. ha dichiarato che solo i dipendenti del reparto ECF erano dotati di maschere, non gli altri.

Infine, quest'ultimo ha dichiarato che nel piazzale, anch'esso sito nella medesima area dei reparti ECF e neutralizzazione acque, come concordemente dichiarato i testimoni sentiti, "per un breve periodo di 1/2 anni circa (nel corso degli anni '80), sono stati stoccati nel piazzale adiacente al reparto depurazione fusti contenenti acido fluoridrico. I fusti erano chiusi e coperti con nylon e poi si raffreddavano con acqua; sa, l'acido fluoridrico a 19 gradi bolle; alle volte i fusti si gonfiavano; qualche fusto si è anche rotto, è capitato".

Ebbene, il collegio peritale nominato nel presente giudizio, con conclusioni immuni da vizi logici e fondate sull'analitico esame della documentazione sanitaria presente in atti ed acquisita in corso di causa (cartelle cliniche dei ricoveri con ogni documentazione allegata alle medesime a partire dell'anno 1988 e fino all'ultimo ricovero prima del decesso in data 12.04.2014 trasmesse dall'U. 8 B. in data 20.11.2023), ha accertato che il de cuius Z.P. ha effettivamente contratto la patologia di "carcinoma uroteliale papillare della pelvi renale" diagnosticata all'esito di visita specialistica urologica del 5.7.2010, che lo avrebbe condotto al decesso. Invero, secondo il consulente tecnico: "Nel caso di specie, trattasi di carcinoma uroteliale papillare della pelvi renale, di alto grado (WHO/ISUP 1998; AFIP 2004), infiltrante la lamina propria, per cui era eseguita nefroureterectomia destra nel 2010 con successiva lieve insufficienza renale. In data 19.02.2011 si formulava diagnosi di carcinoma uroteliale con recidiva del tumore sul moncone residuo ureterale destro fino al suo sbocco in vescica. Stando a quanto riportato in letteratura, trattasi di evoluzione attesa del carcinoma uroteliale di alto grado, come nel caso di specie, che tende dunque alla recidiva. Pertanto, seguiva ricovero ospedaliero per l'esecuzione di un intervento di asportazione del moncone ureterale e di una L-TURB5, con conferma della diagnosi di neoplasia del moncone ureterale destro e neoplasia vescicale multifocale, cui seguiva trattamento adiuvante. Nel 2013, si segnalava la presenza di lesioni polmonari compatibili con localizzazioni secondarie da neoplasia. Tale sospetto era confermato con l'esame istologico del 27.01.2014 che evidenziava "localizzazioni pleuro-polmonare di carcinoma uroteliale". Trattasi dunque di carcinoma uroteliale con metastasi polmonari. In data 26.02.2014, il sig. Z. era ricoverato presso l'A. n. 5 per lombalgia e cervicalgia, astenia e inappetenza, ove si obiettivava un performance status scaduto con dubbia possibilità di eseguire ulteriori trattamenti antiblastici, per cui si consigliava una valutazione più attenta del caso, attivazione dell'assistenza domiciliare con il nucleo delle cure palliative per terapia di supporto. Stante quanto descritto nella documentazione sanitaria, le condizioni cliniche scadute del sig. Z. risultano del tutto compatibili con il quadro di carcinoma metastatico in anamnesi, tali da condurre al decesso, constatato in data 14.04.2014".

Ebbene, la patologia sopra descritta, secondo le valutazioni peritali, dev'essere ricondotta all'esposizione professionale a PFAS -composti per- e polifluoroalchilici che comprendono l'acido perfluoroottanoico (PFOA) e l'acido perfluorooctanosulfonico (PFOS), "ossia molecole contenenti molteplici atomi di fluoro su una catena carboniosa" che permangono nell'organismo umano per periodi estremamente lunghi, con un'emivita di quasi 5 anni per il PFOS e di quasi 4 anni per il PFOA. In particolare, secondo il consulente tecnico: "Il personale addetto alle lavorazioni industriali, in quegli ambienti dove vengono prodotti e/o utilizzati tali composti, è soggetto a un'esposizione professionale per mezzo di inalazione, assorbimento trans-cutaneo, ingestione di polveri contaminate. Stando a quanto riportato, è da considerarsi documentato il fatto che esiste un'esposizione professionale per i lavoratori, soprattutto negli ambienti dove tali molecole sono prodotte, in quanto anche il semplice sostare di un lavoratore, privo degli opportuni DPI, nei pressi di una postazione di produzione delle molecole de quo, - come nel caso di specie- può comportare un assorbimento e quindi un'esposizione alle molecole stesse".

Alla luce delle valutazioni peritali, che si condividono e devono ritenersi in questa sede richiamate, si ritiene dunque raggiunta la prova dell'esposizione del ricorrente all'inalazione di PFAS stante lo svolgimento della propria attività lavorativa, come sopra detto, senza dispositivi di protezione ed in posizione attigua al reparto di ECF (reparto di produzione) dove, come emerso dalle prove orali sopra riportate, nelle operazioni di pulizia delle lamelle transitavano frequentemente operatori e componenti di macchinari. Ciò trova poi conferma nella relazione "Le concentrazioni di sostanze perfluorate nel sangue dei dipendenti ed ex dipendenti delle ditte R. e M. (Trissino, Vicenza)" depositata telematicamente da parte ricorrente in data 3.5.23, da cui risulta, secondo un'indagine retrospettiva, che nel periodo compreso tra il 1968 e il 2011 la società aveva prodotto per lo più PFAS a catena lunga (PFOA e PFOS) e che dalle analisi ematiche dei dipendenti di quel periodo, secondo quanto indicato dal consulente tecnico, era emersa "una chiara esposizione a PFAS dei lavoratori della ditta M. (..) non solo per i lavoratori a diretto contatto con le sostanze perfluorate, bensì anche in quei lavoratori che erano differentemente collocati all'interno dell'azienda e la cui mansione nulla aveva a che vedere con il maneggiamento/contatto con le sopracitate sostanze (impiegati e/o "Altro")". Alla luce di tale indagine, nella parte in cui riguarda anche i lavoratori non direttamente impiegati nella produzione delle sostanze perfluorate, nonché del ridotto spazio esistente fra il reparto ECF e quello di Z. (5 m), peraltro collocati al di sotto di tettoie limitrofe, che impedivano quindi la rapida dispersione delle sostanze nocive, nonché in ragione del fatto che le operazioni di pulizia manuale delle lamine, come dichiarato da S., avveniva proprio di fianco alla postazione del ricorrente, in assenza di mascherina, si ritiene raggiunta la prova dell'esposizione del ricorrente a PFAS per tutto il periodo di lavoro in questione, a tal fine ritenuta non dirimente l'assenza di analisi ematiche dello stesso che, di per sé, non basta ad escludere l'esposizione dello stesso ai PFAS alla luce dei plurimi elementi di segno contrario.

Peraltro, contrariamente a quanto sostenuto dal consulente di parte dell'Inail nelle osservazioni riportate unitamente alle note conclusive depositate in data 2.5.2025 con riferimento alla composizione dei fumi inalati da Z. nel corso delle operazioni di apertura delle celle e di pulizia dei reattori, che questi abbiano contenuto PFOA e PFOS si desume dalla produzione aziendale, come sopra detto, avente ad oggetto tali sostanze fino al 2004, come pure alla presenza di valori PFOA più elevati nelle analisi ematiche dei dipendenti addetti al reparto PF riportate nella predetta relazione, peraltro che "hanno iniziato a lavorare tra il 1968 e il 1969 fino al 2004-2005", comprendente proprio il periodo di lavoro del ricorrente. Del resto, come argomentato dal consulente tecnico "il fatto che la sorveglianza sanitaria fosse impegnata in periodici rilievi ematici delle sostanze de quo indica, per quanto non dimostri, quantomeno un sospetto di rischio professionale correlato alle molecole in questione, la cui misurazione, in assenza di un rischio concreto e noto, non avrebbe avuto ragion d'essere".

In definitiva, secondo il consulente tecnico, avuto riguardo alle mansioni svolte dal ricorrente (operaio addetto alla depurazione delle acque) ed all'esposizione anche extra lavorativa a dette sostanze per contaminazione delle acque della Provincia di Vicenza rilevata nel 2013 "pur in assenza di dati chimico-tossicologici relativi a campioni prelevati direttamente dal sig. Z., si identifica con elevata probabilità, una esposizione lavorativa a PFOA e PFOS, significativamente superiore a quella della popolazione generale, per tutto il periodo del proprio impiego presso la ditta M., vale a dire dal 1979 al 1992". In definitiva, secondo il consulente tecnico: "Per quanto sintetici, i dati estrapolati dalla relazione sopramenzionata e precedentemente riportati in sintesi, permettono di desumere una chiara esposizione a PFAS dei lavoratori della ditta M.; peraltro, tale esposizione è attestata non solo per i lavoratori a diretto contatto con le sostanze perfluorate, bensì anche in quei lavoratori che erano differentemente collocati all'interno dell'azienda e la cui mansione nulla aveva a che vedere con il maneggiamento/contatto con le sopracitate sostanze (impiegati e/o "Altro")". In particolare, secondo il consulente tecnico, anche a prescindere dall'esposizione diretta all'inalazione di PFOA e PFOS, in ragione della sola adiacenza del reparto cui era addetto Z. rispetto a quello di produzione lo stesso rientrerebbe nella classificazione di lavoratore della M. S.p.a. "never PFOA" con conseguenti "concentrazioni sierica elevate di PFOA (mediana di pari a 1.113 ng/ml e compresa nell'intervallo 19-15.786 ng/ml" (pag. 54 ctu).

Ciò detto, secondo la letteratura scientifica, analiticamente riportata dal consulente tecnico, relativa alla correlazione tra l'esposizione a sostanze perfluorate durante l'attività lavorativa e l'insorgenza di patologie neoplastiche vescicali (fra le quali quella uroteliale da cui era affetto Z.), stante la mancanza di esposizione a fattori diversi, per i quali detta correlazione è nota (ad eccezione dell'alcol in data antecedente al 1988, ritenuto tuttavia non significativo), sussiste, con elevato grado di probabilità, il nesso di causalità fra l'esposizione a PFOA e PFAS subita dal ricorrente durante lo svolgimento della propria attività lavorativa nel periodo 1979-1992 ed il carcinoma dallo stesso contratto ed il successivo decesso, rispetto al quale l'esposizione ha avuto, quantomeno, un ruolo concausale. Sul punto, come in relazione alle ulteriori osservazioni presentate dall'Inail, si ritiene che il consulente tecnico abbia compiutamente risposto ritenendo che l'esame della casistica scientifica citata consentisse di indentificare un incremento dell'incidenza dei tumori uroteliali in soggetti esposti a PFAS, riconoscendo una correlazione con un intervallo di confidenza non ricomprendente l'unità, dunque statisticamente significativo, idoneo a far ritenere raggiunta la prova del nesso di causalità, con elevato grado di probabilità. Valga la pena osservare, che il consulente di parte dell'Inail contesta la lettura delle fonti scientifiche effettuata dal consulente tecnico senza tuttavia specificare le ragioni per le quali, secondo la scienza medica o statistica -ivi non riportata- questa sarebbe errata, né può ritenersi la contraddittorietà delle valutazioni peritali soltanto in ragione dei diversi esiti degli studi oggetto di analisi, anche di segno diverso, avendo ritenuto il consulente tecnico dimostrata l'incidenza causale dell'esposizione sulla scorta di quelli ritenuti più attendibili, con motivazioni dalle quali mancano elementi sufficienti per discostarsi.

Pertanto, ritenuto di aderire alle valutazioni peritali, da richiamarsi in questa sede con esaurimento dell'obbligo motivazionale, il ricorso dev'essere accolto, assorbite le questioni non espressamente affrontate, con riconoscimento del diritto alla rendita ai superstiti con decorrenza dal giorno successivo a quello della morte ex art. 105, co. II D.P.R. n. 1124 del 1965.

Le spese di lite, liquidate ex D.M. n. 55 del 2014, in relazione al valore della controversia (cause di previdenza, valore da Euro 5.200 ad Euro 26.000) e all'attività processuale vanno poste a carico di parte resistente, compensate al 50 % in ragione della controvertibilità delle questioni di fatto e di diritto sottese alla decisione.

Sono definitivamente poste a carico dell'Inail le spese di consulenza tecnica, liquidate come in atti.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:

Accoglie il ricorso proposto e, per l'effetto, condanna INAIL alla costituzione in favore degli eredi di Z.P. della rendita ai superstiti ex art. 85 TU 1124/1924 ed al pagamento dei relativi ratei, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

Condanna altresì l'Inail a rimborsare alla parte ricorrente le spese di lite, che si liquidano in Euro 4.636,5 oltre 15% spese generali oltre a i.v.a. e c.p.a. come per legge, da distrarsi a favore dei procuratori antistatari.

Liquida le spese di ctu come da separato decreto.

Sentenza resa ex art. 429 c.p.c.

Così deciso in Vicenza, il 13 maggio 2025.

Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2025.

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