Considerato in diritto
1. I ricorsi proposti da L.M., A.B. e F.F. sono infondati.
2. I relativi motivi di censura possono essere trattati congiuntamente, in quanto gli stessi, in definitiva, lamentano, sotto diverse angolazioni, la circostanza che la Corte di appello abbia confermato il giudizio di responsabilità dei ricorrenti sulla base di una erronea ricostruzione dei fatti e, principalmente, della causa dell'evento; ricostruzione che i ricorrenti ritengono non fondata su basi scientifiche e contrastante con le prove emerse, che avrebbero evidenziato come la caduta della tubazione sarebbe stata determinata non dalle trazioni attuate dagli operai, bensì dall'imprevedibile cedimento strutturale di una cartella di sostegno della tubazione.
Si tratta, tuttavia, di doglianze infondate ed in parte inammissibili, in quanto le stesse si dilungano su aspetti tecnici che attengono alle caratteristiche tecnico-strutturali della tubazione coinvolta nel sinistro, asseritamente risultanti pacificamente dal compendio probatorio processualmente emerso, che sarebbe stato malamente interpretato dai giudici di merito, in tal modo cercando di offrire una rilettura dei fatti secondo considerazioni che appaiono riconducibili non tanto ad una consentita censura di travisamento della prova, quanto ad un presunto travisamento dei fatti, vizio pacificamente non sindacabile in sede di legittimità, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 27321701; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 26548201; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012 Minervini, Rv. 25309901).
Giova ricordare che questa Suprema Corte ha chiarito che il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità "deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali" (tra le altre Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Rv. 207945). E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasta preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, Sentenza n. 17905 del 23.03.2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 1, Sentenza n. 1769 del 23/03/1995, Rv. 201177; Sez. 6, Sentenza n. 22445 in data 8.05.2009, Rv. 244181).
Deve poi considerarsi che la Corte regolatrice ha da tempo chiarito che non è consentito alle parti dedurre censure che riguardano la selezione delle prove effettuata da parte del giudice di merito. A tale approdo, si perviene considerando che, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, Sentenza n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215745; Sez. 2, Sentenza n. 2436 del 21/12/1993, dep. 1994, Rv. 196955).
Come già sopra si è considerato, secondo la comune interpretazione giurisprudenziale, l'art. 606 cod. proc. pen. non consente alla Corte di Cassazione una diversa "lettura" dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali. E questa interpretazione non risulta superata in ragione delle modifiche apportate all'art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen. ad opera della Legge n. 46 del 2006; ciò in quanto la selezione delle prove resta attribuita in via esclusiva al giudice del merito e permane il divieto di accesso agli atti istruttori, quale conseguenza dei limiti posti all'ambito di cognizione della Corte di Cassazione. Ebbene, si deve in questa sede ribadire l'insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, per condivise ragioni, in base al quale si è rilevato che nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; che occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; che il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito e che il giudice di legittimità non può ad esso sostituirsi sulla base della lettura necessariamente parziale suggeritagli dal ricorso per cassazione (Sez. 5, Sentenza n. 16959 del 12/04/2006, Rv. 233464).
Va, inoltre, rammentato che nel caso che occupa ci si trova di fronte ad una c.d. "doppia conforme" di condanna, avendo entrambi i giudici di merito affermato la responsabilità degli imputati in ordine al reato oggetto di contestazione. Ne deriva che le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione. Ciò tanto più ove, come in casi qual è quello che ci occupa, i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 25759501; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 - dep. 2012, Valerio, Rv. 25261501; Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007, Conversa e altro, Rv. 23618101).
3. Peraltro, le censure dei ricorrenti L.M., A.B. e F.F. non colgono nel segno, in quanto la puntuale ricostruzione della causa che ha determinato la caduta della tubazione, a ben vedere, non rileva particolarmente ai fini del giudizio di responsabilità dei predetti imputati, che nel caso attiene a puntuali addebiti di carattere omissivo, che prescindono dalla esatta ricostruzione delle modalità dell'incidente.
Sotto questo profilo, i giudici di merito hanno addebitato ai ricorrenti, essenzialmente, l'omessa predisposizione di un piano esecutivo di intervento che valutasse in maniera specifica le modalità per operare in piena sicurezza al fine di procedere allo spostamento del grosso tubo e alla sostituzione della ventola. Al di là delle cause effettive di caduta della tubazione, il rimprovero è quello di non aver considerato un simile rischio di caduta, certamente prevedibile alla luce delle modalità dell'intervento e delle grosse dimensioni della tubazione, e di conseguenza di non aver predisposto opportune misure di sicurezza (quale la collocazione di un ponteggio) a tutela della incolumità dei lavoratori che operavano nelle vicinanze e sotto tale imponente struttura.
Per tale ragione la Corte territoriale ha correttamente considerato il cedimento strutturale della tubazione, al più, come una concausa dell'evento, in quanto il rischio di caduta avrebbe potuto e dovuto essere comunque previsto, ed i lavoratori adeguatamente protetti.
In questa prospettiva, appare irrilevante stabilire se la caduta del tubo sia dipesa dalle trazioni, dal cedimento strutturale o da entrambe le cose: trattandosi comunque di un'operazione caratterizzata da un alto rischio, intrinseco alle caratteristiche dell'intervento, i giudici di merito hanno ragionevolmente ritenuto che i lavoratori, nel caso di specie, abbiano operato in maniera totalmente inadeguata, senza alcuna doverosa predisposizione - da parte degli odierni ricorrenti - di misure di sicurezza atte a proteggerli dal prevedibile rischio di ribaltamento e caduta dell'imponente condotto su cui andavano ad operare.
4. Alle superiori considerazioni consegue il rigetto dei ricorsi di L.M., A.B. e F.F. , che vanno, pertanto, condannati al pagamento delle spese processuali.
5. E' invece fondato il ricorso avanzato da A.D..
6. Le relative censure prospettate dal ricorrente colgono nel segno, là dove evidenziano che le motivazioni della sentenza impugnata non hanno adeguatamente argomentato in punto di responsabilità del prevenuto, in relazione alla sua posizione di RSPP dell'azienda in cui è avvenuto il sinistro, avuto riguardo alle caratteristiche dell'addebito colposo mosso ai coimputati.
Va qui ribadito che la figura del RSPP si caratterizza per lo svolgimento, all'interno della struttura aziendale, di un ruolo non gestionale ma di consulenza, cui si ricollega un obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 26110701).
Si deve convenire con il ricorrente che la condotta cautelare richiesta dal legislatore al RSPP trova il proprio contenuto essenziale in un processo intellettivo (individuazione e valutazione dei rischi) cronologicamente antecedente le fasi operative/esecutive che attengono alle decisioni ed al controllo sullo svolgimento dell'attività lavorativa, che competono, invece, ad altre figure prevenzionistiche (tipicamente al datore di lavoro, ma anche al dirigente e al preposto).
E' pacifico, insomma, che il RSPP non è destinatario di poteri decisionali, né operativi, né di doveri di vigilanza sulla corretta applicazione delle modalità di lavoro (cfr. Sez. 4, n. 24958 del 26/04/2017, Rescio, Rv. 27028601, in cui la Corte ha precisato che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione svolge un ruolo di consulente in materia antinfortunistica del datore di lavoro ed è privo di effettivo potere decisionale).
7. Tanto chiarito quanto alla particolare posizione di garanzia riconducibile alla figura del RSPP, si deve osservare che le argomentazioni della sentenza impugnata appaiono illogiche e contraddittorie laddove, da una parte, addebitano agli imputati mancanze decisionali di carattere esecutivo che attengono alla omessa predisposizione di un piano di intervento e di sicurezza specifico per l'operazione lavorativa in disamina; dall'altra - indebitamente equiparando la figura del RSPP, che è quella di un consulente, a quella del datore di lavoro e del preposto, che sono invece figure prevenzionistiche operanti nella quotidianità dell'attività lavorativa -, addebitano anche al A.D. di non avere individuato e valutato, nell'immediato, i rischi dell'operazione che si stava eseguendo.
La Corte territoriale non spiega in che termini il A.D. sarebbe stato coinvolto nell'attività lavorativa in questione, certamente non quotidiana, limitandosi ad affermare apoditticamente che si sarebbe trattato di un intervento già svolto in precedenza in quanto conseguente ad un inconveniente che si era già verificato in passato. Ma la sentenza di merito non approfondisce in alcun modo tale aspetto, al fine di stabilire - ad esempio - se e come il A.D. fosse stato consultato, in precedenza, dal datore di lavoro in merito all'intervento specifico di cui si tratta, al fine di individuare e valutare i rischi di tale attività.
Da questo punto di vista, si deve qui ribadire l'orientamento secondo cui, in materia di infortuni sul lavoro, risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ogni qual volta l'infortunio sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare al datore di lavoro (Sez. 4, n. 40718 del 26/04/2017, Raimondo, Rv. 27076501). In altri termini, il RSPP risponde dell'evento, in concorso con il datore di lavoro, solo se si fornisce adeguata dimostrazione che lo stesso abbia svolto in maniera negligente la sua attività di consulente del datore di lavoro, a seguito di errore tecnico nella valutazione dei rischi, per suggerimenti sbagliati o mancata segnalazione di situazioni di rischio colposamente non considerate.
Nel caso, invece, la motivazione della sentenza impugnata sembra confondere il piano intellettivo/valutativo (proprio del RSPP) da quello decisionale/operativo (proprio di altri garanti, principalmente il datore di lavoro). Si parla di evento determinato da scelte esecutive sbagliate, ma tali scelte non spettano al RSPP, il quale non è presente tutti i giorni in azienda e non è tenuto a controllare le fasi esecutive delle lavorazioni.
In definitiva, con riferimento alla posizione del RSPP, la motivazione della sentenza impugnata è viziata, poiché la sua responsabilità viene individuata, essenzialmente, in un omesso intervento in fase esecutiva che è estraneo alle competenze consultive/intellettive del RSPP, e senza che sia stato adeguatamente argomentato in ordine alla conoscibilità, da parte sua, della situazione oggettivamente pericolosa e del suo dovere di segnalazione del rischio al datore di lavoro, in una fase antecedente alla lavorazione stessa.
8. Da quanto sopra consegue l'annullamento della sentenza impugnata nei confronti del A.D., con rinvio per nuovo giudizio al giudice di merito individuato nel dispositivo, che si atterrà ai principi di diritto dianzi indicati.