Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 13 settembre 2018 la Corte di Appello di Venezia ha confermato la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Treviso con cui F.F., nella qualità legale rappresentante della Surgenuin s.n.c., è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 589, comma 2A cod. pen., per avere causato, con colpa consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, nonché nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui all'art. 66 d.lgs. 81/2008, la morte -per insufficienza multiorgano post ipotermia accidentale- di R.B., che, entrato nella cella di surgelazione I.Q.F. n.6 e, in particolare, nell'apertura di ispezione, a seguito di malore, non era in grado di rispondere al collega L.D., il quale, provvedeva a chiudere la porta aperta, ritenendo che la cella fosse vuota, prima di avviare nuovamente l'immissione di azoto.
2. Il fatto per come accertato dalla sentenza di primo grado -e ripreso dalla Corte territoriale- può essere riassunto come segue. L'operaio R.B., cui erano attribuite mansioni generiche, venne rinvenuto alle ore 18,25 del 9 agosto 2012, all'interno della cella di surgelazione IQF, dove si raccoglieva il prodotto in lavorazione, in stato di incoscienza, dai colleghi di lavoro, intenti a cercarlo da circa 20 minuti. Immediatamente soccorso, decedeva il giorno successivo per insufficienza multiorgano post ipotermia accidentale. Nessuno poté osservare la dinamica del sinistro e, tuttavia, nel corso delle ricerche del lavoratore il dipendente L.D., trovata la cella aperta e l'erogatore dell'azoto chiuso, dopo avere chiamato il R.B., non ottenendo risposta, richiuse la porta e riavviò l'azoto. Furono riscontrate dalle indagini dello SPISAL le seguenti carenze: assenza nel DVR della valutazione dei rischi connessi all'uso dell'azoto in ambiente chiuso, con conseguente mancata specifica formazione del personale sul punto; assenza di un sistema di sicurezza -ossimetro- finalizzato alla segnalazione di un livello di ossigeno ed idoneo ad impedire l'apertura della porta in condizioni di rischio od a disattivare il funzionamento degli apparati meccanici in caso di porta aperta; assenza di strumenti di protezione individuale (autorespiratori), per coloro che dovevano accedere alla cella, anche per interventi di soccorso. Le sentenze danno atto che nell'impossibilità di ricostruire le esatte ragioni dell'ingresso di R.B. nella cella, nonché la dinamica della caduta all'interno della vasca, attraverso un foro della misura di cm. 40X40, è stato, nondimeno, appurato che R.B. osservò due delle tre prescrizioni impartite per l'accesso- mantenimento della porta aperta, disattivazione dell'azoto- senza però provvedere a dare avviso ad almeno un collega del suo ingresso nella cella, come previsto. Mentre non è risultato possibile accertare quanto tempo il lavoratore attese dal momento dall'apertura della porta e dello spegnimento dell'azoto, prima di accedere all'interno, essendo stato stabilito, nelle prescrizioni impartite, un intervallo minimo di almeno un minuto. Dunque, il lavoratore, le cui mansioni generiche includevano anche l'accesso alla vasca per effettuare controlli sul prodotto in lavorazione, si introdusse nella cella, ivi perdendo i sensi per l'eccessiva quantità di azoto presente, scivolando attraverso il pertugio nella vasca di lavorazione, dove venne rinvenuto dai colleghi. Sia la sentenza di primo grado che quella di secondo grado escludono l'intenzione suicidiaria del lavoratore, avendo il medesimo spento i macchinari, prima di introdursi nella cella, azione questa incompatibile con una simile volontà. Parimenti hanno ritenuto non incompatibile con la caduta accidentale la ridotta larghezza dell'apertura di ispezione, considerandola sufficiente al passaggio del corpo di un uomo di medie dimensioni, soprattutto se posto di fianco. Le decisioni hanno escluso, altresì, l'abnormità del comportamento del lavoratore, posto che, seppure questi disattese le regole fondamentali prescritte per evitare infortuni all'interno della cella -la cui pericolosità era nota ai lavoratori- il datore di lavoro avrebbe dovuto prevedere che un lavoratore, anche per mera superficialità, ponesse in essere condotte errate. Sicché la mancata adozione di misure preventive efficaci, idonee ad impedire l'accesso alla cella, in presenza di concentrazioni di azoto tossiche per l'uomo, è stata ritenuta condotta colposa causalmente connessa all'evento dannoso.
3. Avverso la sentenza della Corte di appello F.F., a mezzo del suo difensore, propone ricorso per cassazione, affidandolo a tre motivi.
4. Con il primo fa valere, ex art. 606, primo comma, lett. e), il vizio di motivazione, rilevabile dal provvedimento impugnato e dagli atti del procedimento, in ordine alla ritenuta accidentalità della caduta ed alla causa della morte. Osserva che la Corte territoriale nel discostarsi dalla ricostruzione del primo giudice, secondo il quale R.B. sarebbe entrato nella vasca intenzionalmente, ha ritenuto, con argomentazioni del tutto prive di supporto scientifico, ed avulse da accertamenti anche sperimentali, che la caduta e la posizione finale del corpo non fossero incompatibili con un evento accidentale, senza tenere in considerazione la relazione dei funzionari Spisal. Secondo il parere espresso dai tecnici, infatti, nell'impossibilità di ricostruire la dinamica del sinistro, appare 'inverosimile che una persona possa, nella postazione sopra la scala a gradini di ispezione al contenitore, cadere completamente all'interno del contenitore stesso ad esempio a seguito di uno svenimento, di un malore o del semplice scivolamento. Al massimo, infatti, l'operatore potrebbe rimanere incastrato all'interno dell'apertura quadra della tramoggia. A fronte di ciò la decisione della Corte d'appello si limita ad asserire che, contrariamente a quanto affermato nel rapporto Spisal, l'apertura fosse sufficientemente larga da consentire il passaggio della parte inferiore del corpo, dal bacino in giù, di un uomo di medie dimensioni, soprattutto se posto di fianco. E ciò senza basarsi su dati di alcun genere. Assume che, d'altro canto, R.B. fu rinvenuto riverso all'interno della vasca con l'intero corpo e non solo dal bacino in giù, il che dimostra l'inconsistenza dell'apparato argomentativo della sentenza, nella parte in cui riconosce l'assenza di ragioni di un accesso volontario all'interno della vasca, ma poi conclude per una caduta accidentale, incompatibile con la conformazione del luogo. Il che implica quale unica spiegazione plausibile l'accesso volontario all'interno del vascone. Sostiene che solo dalla supposta caduta accidentale, non sorretta da alcuna evidenza processuale, la Corte trae che il lavoratore fosse entrato nella cella quando l'aria era ancora satura di azoto, così perdendo i sensi. La motivazione, pertanto, si dimostra gravemente illogica e del tutto assertiva.
5. Con il secondo motivo lamenta ex art. 606, comma 1" lett. b) ed e) cod. proc. pen. la violazione della legge penale in relazione agli artt. 40 e 41, comma 2 cod. pen., nonché il vizio di motivazione rilevabile dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti specificamente indicati nei motivi di gravame. Deduce che la Corte territoriale omette di dar conto delle ragioni per le quali l'adozione del comportamento alternativo lecito -ovverosia l'installazione di dispositivi che non consentissero l'accesso alla cella in presenza di una concentrazione di azoto incompatibile con l'organismo umano- avrebbe consentito di evitare l'evento. Infatti, R.B. disattivò l'azoto prima di entrare nella cella, decidendo volontariamente di accedere alla vasca, utilizzando la scaletta per accedere ad un foro di ispezione largo appena 40 centimetri. Il collega L.D., tuttavia, passando davanti alla cella e vedendo la porta. aperta, ritenendo che dentro non vi fosse nessuno, chiuse la porta e riavviò l'azoto. L'andamento dei fatti, pertanto, dimostra che la morte di R.B. non derivò dalla mancata adozione del dispositivo indicato dalla Corte, ma dal comportamento -pur incolpevole- di un altro lavoratore. La condotta ritenuta 'appropriata' dal giudice del merito, dunque, non sarebbe stata idonea ad evitare l'evento. Aggiunge che la perdita completa dei sensi da parte di R.B., che avrebbe causato la caduta accidentale, è una mera asserzione, non giustificata in alcun modo dal giudice d'appello. Così come del tutto priva di sostegno scientifico è l'affermazione secondo la quale, una volta disattivato l'azoto, senza attendere un tempo sufficiente, il livello di saturazione dell'aria può indurre la perdita di coscienza, anziché provocare solo un vago stordimento. Rileva che per affermare la sussistenza del nesso di causalità fra la condotta doverosa omessa e l'evento occorre immaginare che cosa sarebbe accaduto se la cella fosse stata dotata del dispositivo indicato dalla Corte come salvifico, e cioè tale da impedire l'accesso del lavoratore alla cella prima che della discesa dell'azoto sotto determinati livelli., In questo caso, se il lavoratore si fosse introdotto nella cella solo dopo il raggiungimento del livello di azoto non nocivo ed avesse, del tutto volontariamente, deciso di accedere all'interno della vasca tramite il foro di ispezione, utilizzando la scaletta per raggiungerlo, la semplice adozione del dispositivo non avrebbe consentito di evitare l'evento, qualora un collega di lavoro, non avvertito della presenza di altro lavoratore all'interno della cella, trovando la porta aperta, l'avesse chiusa ed avesse riavviato l'azoto. Inoltre, l'abnormità del comportamento del lavoratore -che decide, del tutto imprevedibilmente e senza alcuna ragione legata ad esigenze produttive, di introdursi nella cella, senza avvertire nessuno- dimostra la sussistenza del c.d. 'rischio elettivo', avendo R.B. scelto di porsi deliberatamente in pericolo, per motivi diversi da finalità produttive e dal funzionamento del macchinario. Queste, invero, sono le conclusioni risultanti anche dalla lettura del rapporto dei funzionari dello Spisal e dalla relazione INAIL, che danno atto dell'inverosimiglianza della caduta accidentale e completa dalla postazione sopra la scala all'interno del contenitore.
6. Con il terzo motivo, contesta il vizio di motivazione, sotto il profilo dell'omissione, risultante dal provvedimento impugnato, in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata, senza rinvio o con rinvio.