Considerato in diritto
1. Il ricorso, considerato nel suo complesso e in ciascuno dei cinque motivi in cui esso é articolato (largamente riportanti lagnanze ripetitive e in buona parte coincidenti con quelle prospettate con l'atto d'appello), é inammissibile, in quanto manifestamente infondato e proteso, nell'essenziale, a sollecitare indebitamente in sede di legittimità una rivalutazione del materiale probatorio, pur a fronte di un percorso argomentativo completo ed esaustivo come quello della sentenza impugnata e, ancor più, di quella di primo grado, da leggersi congiuntamente trattandosi di "doppia conforme" (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595). Si ricorda infatti che, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507).
Tanto premesso, pur nell'ampio e articolato incedere argomentativo dei cinque motivi di ricorso, le questioni prospettate dalla ricorrente si risolvono, a ben vedere, in due profili fondamentali: q1,1ello della responsabilità colposa della P.P. quale titolare dell'impianto e datrice di lavoro del personale tecnico ad esso assegnato, sia in relazione alle caratteristiche costruttive e funzionali dell'impianto stesso, sia in relazione ai profili di culpa in vigilando denunciati a più riprese come insussistenti nel ricorso; e quello del nesso di causalità tra le condotte - in larga parte omissive - addebitate alla P.P. e l'evento di pericolo venutosi a concretizzare con la fuoriuscita di gas.
Ora, se é vero che l'episodio per cui é processo ha avuto una sua causa scatenante (occasionale) nell'eccessivo riempimento del serbatoio di GPL (pur a fronte di quanto segnalato dal tecnico M.M. agli operai presenti in loco circa l'esigenza di non riempire ulteriormente il serbatoio a seguito del blocco del rilevatore del livello di carburante, ma di erogarne il contenuto fino all'esaurimento dello stesso onde consentire la riparazione), é pur vero che la causa originaria della fuoriuscita di GPL é stata ravvisata nella rottura di una delle pompe presenti nel vano pompe (facilitata dalla presenza di una valvola di intercettazione manuale lasciata aperta); che i riempimenti di serbatoio venivano eseguiti spesso oltre i limiti consentiti dalla normativa, così da creare pressioni e sollecitazioni anomale sull'impianto e, indirettamente, la rottura della pompa; che la rottura delle pompe elettriche era stata rilevata precedentemente in più occasioni, senza che la titolare avesse mai provveduto al riguardo.
Va chiarito inoltre che, anche con riguardo all'impianto di che trattasi, trova applicazione la nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di attuare le misure antinfortunistiche: in tale nozione rientra ogni luogo in cui venga svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro, indipendentemente dalle finalità della struttura in cui essa si esplichi e dell'accesso ad essa da parte di terzi estranei all'attività lavorativa (da ultimo vds., proprio in relazione a un impianto di distribuzione di GPL, Sez. F, Sentenza n. 45316 del 27/08/2019, Giorni, Rv. 277292). Su tale base é di tutta evidenza che il titolare, nella sua posizione datoriale, mantiene intatti gli obblighi di vigilanza sull'attività dei dipendenti, non solo nel caso in cui (come nell'occorso) essi non siano provvisti di delega scritta, ma anche nel caso in cui lo siano: é noto infatti che gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega sia espresso, inequivoco e certo ed investa persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, fermo restando, comunque, l'obbligo, per il datore di lavoro, di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (cfr. Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261108; e più di recente Sez. 4, Sentenza n. 24908 del 29/01/2019, Ferrari, Rv. 276335). Dunque la ricorrente non può fondatamente asserire di essere sottratta a tali obblighi di vigilanza sulla base del fatto che il personale assegnato alle operazioni di gestione dell'impianto fosse provvisto di formazione al riguardo, laddove, quand'anche la P.P. avesse formalmente conferito delega ai suoi dipendenti ivi impiegati, i suoi doveri di vigilanza non sarebbero comunque venuti delegante non comporta il controllo continuativo delle modalità di svolgimento delle funzioni trasferite, richiedendosi la mera verifica della correttezza della complessiva gestione del delegato: cfr. in tal senso, da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 15941 del 12/02/2020, Fissolo, Rv. 278879). A maggior motivo però i doveri di vigilanza sull'operato dei suoi dipendenti Ia. e I., nell'ambito oltretutto di un'attività pericolosa come quella di gestione di un deposito di materiale combustibile e altamente infiammabile, gravavano sulla P.P. in mancanza del conferimento di una delega scritta a tal fine, come invece espressamente richiesto dall'art. 16, d.lgs. n. 81/2008, quale che fosse il livello di preparazione tecnica e di autonomia operativa dei suddetti dipendenti.
Nel caso di specie, del resto, gli elementi probatori emersi a proposito delle ripetute negligenze e manchevolezze nella realizzazione dell'impianto (ivi compresi gli interventi di modifica oggetto dell'imputazione) e nella sua gestione e manutenzione (dai reiterati riempimenti oltre il consentito alle ripetute rotture di altre pompe e agli allagamenti senza alcun intervento da parte dell'odierna ricorrente) depongono per una sistematica violazione dei predetti doveri di vigilanza, ed anzi per una ripetuta elusione delle disposizioni vigenti nel settore; non certo per una occasionale emergenza da cui sarebbe scaturita l'uscita di gas al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte della P.P.. Anche a proposito della realizzazione della tubazione costituente la c.d. "seconda linea" le allegazioni della ricorrente, sostanzialmente reiterative di quelle già prospettate in appello, si risolvono nella mera allegazione della finalità di spurgo e di pulizia dei circuiti (laddove la lettura tecnica di tale dispositivo - accolta dalla Corte di merito, come già dal primo giudice, con ampio percorso argomentativo - é nel senso della finalità di potenziamento dell'impianto) e nel riferimento al fatto che la tubazione aggiuntiva era già presente nei progetti presentati nel 1988 (laddove però tale tubazione non risulta riportata negli schemi tecnici presentati alle autorità negli anni 2005 - 2006).
Anche sotto il profilo del nesso di causalità, l'iter argomentativo della sentenza impugnata é ampiamente chiarificatore ed espone convenientemente le ragioni per cui l'evento di pericolo é stato visto come la risultante di una pluralità di omissioni e negligenze nella vigilanza e nella manutenzione dell'impianto da parte dell'imputata, nella sua qualità di garante. La fuga di gas, indicata come causa sopravvenuta e idonea a interrompere il nesso di causalità, é invece stata correttamente indicata come l'effetto della reiterata condotta omissiva ed elusiva della P.P., oltreché come evento necessariamente suscettibile di prevedibilità da parte del titolare di un impianto di GPL; la Corte molisana affronta anche, in modo del tutto adeguato, il ragionamento controfattuale, deducendo - sulla base dall'istruttoria dibattimentale - che, ove l'imputata avesse ottemperato ai ridetti obblighi di vigilanza e si fosse attenuta alle disposizioni di settore, l'evento non si sarebbe verificato.
2. Alla declaratoria d'inammissibilità consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», la ricorrente va condannata al pagamento di una somma che si stima equo determinare in € 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.