Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso é fondato e assorbente.
La Corte di merito ha sostanzialmente ritenuto sussistente la violazione dell'art. 71 D.Lgs. 81/2008, che fa obbligo al datore di lavoro di verificare la sicurezza delle macchine introdotte nella propria azienda e di rimuovere le fonti di pericolo per i lavoratori addetti all'utilizzazione di una macchina; al riguardo, secondo la Corte ambrosiana, il rischio nella specie concretizzatosi (derivante da un uso improprio e non sicuro delle macchine spezzonatrici) sarebbe stato conosciuto o quanto meno conoscibile da parte del datore di lavoro, ma non sarebbe stato da lui adeguatamente fronteggiato. In proposito, assume la Corte di merito che sarebbe stato comprovato che i lavoratori procedevano ricorrentemente, o per lo meno in modo non episodico, ad eseguire le lavorazioni senza la protezione della quale la macchina era corredata, soprattutto per poter rimuovere i tubicini in plastica rossa (che avevano la tendenza ad appiccicarsi sulle pareti del macchinario), e ciò sebbene la rimozione della protezione fosse manovra che richiedeva di agire sulle viti di fissaggio e nonostante il fatto che i lavoratori eseguissero tale manovra in modo da non farsi vedere dal personale dell'azienda preposto alla vigilanza, per come riferito in particolare dal teste S.. Da ciò, la Corte ambrosiana riferisce che lo F.S., pur mettendo a disposizione degli operatori un'apparecchiatura provvista di un dispositivo di sicurezza, sarebbe stato a conoscenza della sopra descritta prassi elusiva (ossia del fatto che tale dispositivo veniva in alcuni casi rimosso) e, nonostante ciò, non avrebbe preteso che l'uso dell'apparecchiatura avvenisse in conformità alle norme d'impiego, omettendo di attivarsi per impedire che le macchine spezzonatrici fossero impiegate senza il dispositivo di protezione e che i dipendenti, anche solo accidentalmente, posizionassero le dita o le mani in corrispondenza della zona di taglio, come accadde al PL.G..
2. Tuttavia, in base al percorso motivazionale seguito dalla Corte di merito, non si ricava in alcun modo la certezza che lo F.S. fosse realmente (o potesse realmente essere) a conoscenza di tale prassi, pur volendosi ammettere che essa fosse davvero così diffusa e frequente come affermato dalla persona offesa e, in parte, dal teste S..
Invero, dallo stesso racconto di quest'ultimo risulterebbe che la rimozione della protezione veniva eseguita dai lavoratori in modo da non essere notati dal personale preposto al controllo, che non avrebbe tollerato tale condotta.
Ciò, a ben vedere, costituisce un primo elemento deponente per la presenza in azienda di un sistema di vigilanza finalizzato ad assicurare l'espletamento "in sicurezza" delle lavorazioni.
Ma, a parte tale aspetto, quand'anche volesse ritenersi assodato che i sorveglianti fossero a conoscenza della prassi anzidetta, la loro posizione di soggetti subordinati gerarchicamente allo F.S. (nella sua qualità di direttore generale) non può dirsi ex se sufficiente a trarne la conclusione, come fa apoditticamente la Corte ambrosiana, che l'odierno ricorrente fosse necessariamente messo da costoro a conoscenza del fatto che i suoi dipendenti rimuovevano, più o meno abitualmente, la protezione posizionata sulle macchine spezzonatrici: il rapporto di dipendenza del personale di vigilanza dal datore di lavoro non costituisce di per sé prova né della conoscenza, né della conoscibilità, da parte di quest'ultimo, di prassi aziendali (più o meno ricorrenti) volte ad eludere i dispositivi di protezione presenti sui macchinari messi a disposizione dei dipendenti. Tanto più che tale deduzione non viene messa neppure in correlazione con la struttura e con le dimensioni della società di cui lo F.S. era legale rappresentante: un elemento, questo, rimasto inesplorato nel giudizio di merito e che tuttavia avrebbe potuto avere un peso nella ricostruzione della conoscibilità di prassi aziendali contra legem da parte dello F.S..
Ciò che si intende affermare é che il datore di lavoro é, bensì, responsabile del mancato intervento finalizzato ad assicurare l'utilizzo in sicurezza di macchinari e apparecchiature provvisti di dispositivi di protezione e, in tal senso, del fatto di non esigere che tali dispositivi non vengano rimossi; ma, nel caso di infortuni derivanti dalla rimozione delle protezioni a corredo dei macchinari, anche laddove tale rimozione si innesti in prassi aziendali diffuse o ricorrenti, non si può ascrivere tale condotta omissiva al datore di lavoro laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi, o che le avesse colposamente ignorate.
Tale certezza può, in alcuni casi, inferirsi sul piano logico (ad esempio qualora la rimozione dei dispositivi di protezione sia univocamente frutto di una precisa scelta aziendale chiaramente finalizzata a una maggiore produttività); ma, quando - come in questo caso - non vi siano elementi di natura logica per dedurre la conoscenza o la certa conoscibilità di prassi aziendali incaute da parte del titolare della posizione di garanzia datoriale, é necessaria l'acquisizione di elementi probatori certi ed oggettivi che attestino tale conoscenza/conoscibilità. Diversamente opinando, si porrebbe in capo al datore di lavoro una responsabilità penale "di posizione" tale da eludere l'accertamento della prevedibilità dell'evento - imprescindibile nell'ambito dei reati colposi - e da sconfinare, in modo inaccettabile, nella responsabilità oggettiva.
3. Alla luce di quanto precede la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Milano, per nuovo giudizio nel quale saranno debitamente valutati gli aspetti dianzi evidenziati.