Ritenuto in fatto
1. Il ricorso è fondato in relazione alle censure esposte nel primo motivo, per le ragioni di seguito precisate, con assorbimento delle ulteriori doglianze.
2. Le censure formulate nel primo motivo contestano la ritenuta configurabilità del reato, deducendo che non è indicato se l'imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno, e che l'impianto era inidoneo ad effettuare registrazioni.
2.1. Per chiarezza, occorre una duplice precisazione di carattere generale.
Innanzitutto, va osservato che la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in contestazione. Invero, detto reato, sulla base di quanto previsto dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, art. 15 che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, comma 1, previsione a sua volta diretta a regolamentare l'uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti "dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori".
Va poi rilevato che, secondo un principio enunciato in giurisprudenza, non è configurabile la violazione della disciplina di cui alla L. n. 300 del 1970, artt. 4 e 38 - tuttora penalmente sanzionata in forza del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 171 come modificato dalla L. n. 101 del 2018 - quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi (così Sez. 3, n. 3255 del 14/12/2020, dep. 2021, Wang Yong Kang, Rv. 280542-01).
2.2. La sentenza impugnata si presenta lacunosa sotto entrambi i profili.
La decisione del Tribunale di Messina, infatti, si limita a dare atto che, nel bar di cui l'imputata era titolare, erano stati installati un monitor e cinque telecamere, sebbene in difetto di espressa autorizzazione.
La pronuncia, però, non precisa nè se nell'esercizio commerciale gestito dall'imputata prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, nè, in ogni caso, se l'impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.
3. La fondatezza delle censure sopra precisate impone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Il Giudice del rinvio, che si individua nel Tribunale di Messina in diversa persona fisica, a norma di quanto previsto dall'art. 623 c.p.p., comma 1, lett. d), valuterà se debba o meno ritenersi sussistente il reato di cui alla L. n. 300 del 1970, artt. 4 e 38 e D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 171 come modificato dalla L. n. 101 del 2018, in particolare verificando se, nel bar gestito dall'imputata, prestassero servizio lavoratori subordinati, e, in caso affermativo, se l'impianto di videosorveglianza ivi posizionato implicasse un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di tenerlo "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.