Cassazione Penale Sent. Sez. 5 n. 38425 | 22 Novembre 2006
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Cassazione Penale, Sez. 5, 22 novembre 2006, n. 38425
Schegge e mancanza di occhiali protettivi: requisiti della delega di funzioni
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Genova confermava la sentenza di primo grado con la quale De.Fr.Ma. era stato condannato alla pena di euro 300.00 di multa, per il reato di lesioni colpose gravi, previa concessione delle attenuanti generiche nonché dell'attenuante del risarcimento del danno prevalenti sulle aggravanti contestate.
Trattavasi di un infortunio sul lavoro occorso in data 14 giugno 1999 in un'autocarrozzeria al lavoratore dipendente Pe.Vi., che mentre era intento ad operazioni di carteggiatura con l'apposita macchina ad aria compressa su di un'autovettura, veniva colpito all'occhio destro da schegge e polvere di stucco metallico, che gli provocavano una malattia superiore ai 90 gg.
Il De.Fr. era stato chiamato a risponderne quale titolare dell'autocarrozzeria, essendosi ravvisati a suo carico profili di colpa, sia generica, sub specie dell'imprudenza e negligenza, sia specifica, fondata, quest'ultima, sulla inosservanza del disposto dell'art. 382 dpr 547/55 avendo lo stesso omesso di dotare il dipendente di occhiali protettivi.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione De.Fr.Ma., articolando i seguenti motivi.
Con il primo motivo, deduce l'assenza di motivazione in ordine al rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, prospettata sub specie di omessa valutazione di una richiesta di escussione, nella qualità di teste, del capo-officina, che, secondo l'assunto difensivo, avrebbe dovuto verificare, pur in assenza di una delega formale, l'ottemperanza dei dipendenti alla normativa antinfortunistica.
Con il secondo motivo, denuncia la violazione dell'art. 521 c.p.p., sul rilievo che la Corte di Appello avrebbe evidenziato un profilo di colpa diverso da quello individuato in sede di originaria contestazione (il datore di lavoro non prescriveva l'adozione di occhiali e non ne controllava l'uso, mentre nel capo di imputazione era stato contestato di avere omesso di dotare il dipendente di occhiali protettivi), così violando il principio di necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione. Tale violazione, si sostiene, avrebbe impedito una difesa adeguata.
Con il terzo motivo, si duole della omessa motivazione in merito alla determinazione della pena, superiore al limite edittale, nonostante l'integrale risarcimento del danno da parte del prevenuto.
Con il quarto motivo, lamenta il vizio di motivazione con riferimento al giudizio di equivalenza riguardo alle aggravanti contestate, sul rilievo che la Corte di appello si sarebbe limitata a richiamare sul punto la sentenza di primo grado.
Tutti i motivi sono infondati e non meritano accoglimento.
Infondato è il primo motivo, che si risolve in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della vicenda come ricostruite dal giudice di merito, pur in presenza di una motivazione coerente e logica.
In primo luogo, sulla lamentata mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, il ricorrente dimentica le caratteristiche della rinnovazione del giudizio in appello.
In vero, secondo assunto pacifico, poiché il giudizio d'appello, costituisce un procedimento critico che ha per oggetto la sentenza impugnata, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è un istituto di carattere eccezionale, rispetto all'abbandono del principio di oralità del secondo grado, nel quale vale la presunzione che l'indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice. In una tale prospettiva, l'art. 603, comma 1, c.p.p. non riconosce carattere di obbligatorietà all'esercizio del potere del giudice d'appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti. Con la conseguenza che, se è vero che il diniego dell'eventualmente invocata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della illogicità e della non congruità è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo stato degli atti (di recente, Cass., Sez. IV, 28 ottobre 2005, Conti).
La Corte di appello si è posta in linea con il principio sopra enunciato ed ha in effetti logicamente argomentato sul rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale attraverso l'assunzione della prova testimoniale del capo officina, richiamando i principi generali in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., in assenza di delega, nella fattispecie rimasta indimostrata.
Il ricorrente non contesta, infatti, le modalità dell'incidente, ma la riferibilità a sé stessa nella qualità di datore di lavoro, della violazione contestata, eccependo di aver conferito di fatto una delega al capo officina al fine di verificare l'ottemperanza dei dipendenti alla normativa anti-infortunistica.
La Corte di merito, in proposito, ha ritenuto insussistente una delega ed ha correttamente dedotto che sotto tale profilo il De.Fr. non potesse essere esonerato da responsabilità.
La decisione è, sotto questo profilo, perfettamente rispettosa del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al datore di lavoro. Tuttavia, il relativo atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo e deve investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo comunque l'obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (di recente, in termini, v. Cass., Sez. IV, 12 gennaio 2005, Cuccu; nonché Cass., Sez. IV, 1° aprile 2004, Rinaudo ed altro).
Questa conclusione, del resto, è coerente con il ruolo del datore di lavoro e con le responsabilità che da questo al medesimo derivano (ruolo e responsabilità tenuti ben presenti nella decisione gravata, attraverso soprattutto l'esatto richiamo al disposto dell'art. 2087 c.c.).
Come è noto, infatti, è il datore di lavoro il primo e principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica. Ciò dovendosi desumere non solo dagli obblighi specifici in tal senso posti a carico dello stesso datore di lavoro (cfr., in particolare, l' art. 4 dpr 27 aprile 1955 n. 547 nonché l' art. 4 d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626), ma anche, più in generale, dalla "norma di chiusura" stabilita nell'art. 2087 c.c., che integra la legislazione speciale di prevenzione, imponendo al datore di lavoro di farsi tout court garante dell'incolumità del lavoratore (sul ruolo di "norma di chiusura" dell'art. 2087 c.c., cfr. Cass., Sez. IV, 122 gennaio 2005, Cuccu e Cass., Sez. IV, 4 novembre 2003, Forti).
Può così in effetti affermarsi che il datore di lavoro, proprio in forza delle disposizioni specifiche previste dalla normativa antinfortunistica e di quella generale di cui all'art. 2087 c.c., è il "garante" dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del lavoratore, con la conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 comma 2 c.p. (non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo).
Quanto al secondo motivo, non può sostenersi, con la difesa, che la Corte, evidenziando che il datore di lavoro non controllasse l'uso degli occhiali e non l'omessa dotazione degli stessi, sarebbe incorsa nella violazione del principio di necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione.
Tale censura non tiene conto, innanzitutto, che l'eventuale esistenza di occhiali protettivi non esclude la contravvenzione di cui all'art. 382 del dpr n. 547 del 1955 se il datore di lavoro non provi di aver richiesto ai lavoratori addetti l'uso dei mezzi di protezione posti a loro disposizione (v. in tal senso, Cass., Sez. Ill, 11 novembre 1985, Carabelli).
Non è inutile ricordare, inoltre, che, per assunto pacifico, il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa. Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in "rapporto di continenza" (cfr., tra le tante, Cass., Sez. VI, 29 aprile 2003, Carboni).
ll principio di correlazione tra imputazione e sentenza va apprezzato infatti non in senso formalistico, ma piuttosto con riferimento alla finalità di garanzia che è diretto a soddisfare: con la conseguenza che non qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria appare atta a violare il suddetto principio, mentre ciò deve ritenersi solo nel caso in cui la modificazione dell'imputazione pregiudichi e precluda, in concreto, la possibilità di difesa da parte dell'imputato (cfr. Cass., Sez. IV, 17 maggio 2005, Da Canal ed altro).
Lesione della possibilità di difendersi che nella specie deve escludersi, non potendosi revocare in dubbio che la condotta contestata al De.Fr. sin dal principio era la violazione di tutte le cautele che debbono essere adottate (in particolare la prescrizione e l'uso degli occhiali) al fine di salvaguardare l'incolumità del lavoratore esposto al pericolo di offesa degli occhi per proiezioni di schegge o di altri materiali comunque dannosi (v. art. 382 dpr 547/55).
Le censure proposte con il terzo ed il quarto motivo non possono parimenti essere accolte perché vorrebbero che in questa sede si procedesse ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali i giudici di merito hanno esercitato il potere discrezionale loro concesso dall'ordinamento ai fini della determinazione della pena.
ll ricorrente non considera che, ai fini della determinazione della pena, il potere discrezionale del giudice di merito, correlato all'apprezzamento degli elementi indicati nell'art. 133 c.p., è incensurabile se supportato da coerente e congrua motivazione.
Quanto detto vale, a fortori, anche per il giudice d'appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante, non è tenuto ad un'analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego delle attenuanti e della determinazione della pena, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (cfr., ex pluribus, Cass., Sez. IV, 21 giugno 2005, Lantani ed altro).
A ciò dovendosi aggiungere, con specifico riguardo al contenuto dell'obbligo di motivazione, che questo si attenua nel caso in cui il giudice ritenga di applicare la pena in misura prossima o vicina al minimo edittale (come nella specie), tanto più se si consideri che l'applicazione del minimo edittale non è correlata ad un diritto assoluto dell'imputato (in tal senso, cfr. Cass., Sez. IV, 12 luglio 2005, Bianchi ed altro).
Analoghe considerazioni valgono per il giudizio di comparazione tra le circostanze (art. 69 c.p.), la cui finalità è quella di apprezzare la personalità del colpevole e la vera entità del fatto onde conseguire il perfetto adattamento della pena al caso concreto.
Nella fattispecie, il giudice di appello ha correttamente fatto rinvio per relationem alla motivazione della sentenza di primo grado, che aveva fondato il giudizio di equivalenza tra le circostanze sul fatto e sul comportamento processuale dell'imputato.
Alla declaratoria di rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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