Cassazione Penale Sent. Sez. 4 n. 54010 | 03 Dicembre 2018
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Caduta mortale all'interno di una botola del cantiere
Responsabilità del committente che non sospende i lavori nonostante fosse a conoscenza delle palesi violazioni
Penale Sent. Sez. 4 Num. 54010 Anno 2018
Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 25/10/2018
1. La Corte di Appello di Napoli, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente, A.N., e dei coimputati non ricorrenti DF.D. e F.M. con sentenza del 25/4/2016, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, emessa in data 22/10/2012, appellata dagli imputati, ha rideterminato la pena in anni 1 e mesi 8 di reclusione ciascuno, con sospensione condizionale della pena, confermando nel resto la pronuncia di primo grado, ivi comprese le statuizioni civili e con condanna alla rifusione delle ulteriori spese della parte civile.
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, aveva dichiarato DF.D., F.M. e A.N. responsabili, nelle rispettive qualità di datore di lavoro, responsabile di cantiere e per la sicurezza e di direttore dei lavori- committente del reato di cui agli artt. 41 co. 1, 40 co.2 e 589 co. 1 e 2 cod. pen. per avere cagionato il decesso dell'operaio A.L. il quale, non adeguatamente formato in materia di sicurezza ed impiegato in un cantiere in cui non erano state adottate tutte, le misure necessarie, per prevenire gli infortuni, cadeva in una botola precipitando sul piano di calpestio sottostante ed impattando con il suolo dopo un volo di quattro metri. Da tale caduta derivava lesioni un "trauma cranico commotivo in policontuso", che, dopo alcuni giorni di ricovero in ospedale, ne provocava la morte per "arresto cardiocircolatorio da insufficienza respiratoria per stato comatoso in soggetto con trauma cranico e toracico, operato di craniotomia decompressiva ed evacuazione di ematoma sottodurale acuto".
L'infortunio avveniva a Capodrise il 9/9/2005, mentre il decesso si registrava il 24/9/05 a Caserta.
I profili di colpa addebitati all'odierno ricorrente in qualità di committente, e direttore dei lavori edili nel cantiere sito in via OMISSIS, sono, dunque, quelli generici della negligenza, imprudenza ed imperizia nonché quelli concretatisi nell’inosservanza di specifiche norme antinfortunistiche a tutela dei lavoratori, su di lui gravanti quanto meno ai sensi dell'art. 6 della Legge 494/1996 in quanto persona concretamente responsabile del controllo sul rispetto delle regole di sicurezza sul lavoro e sull'attuazione del piano di sicurezza del cantiere.
In particolare, come meglio specificato nei due capi di imputazione, cagionava la morte dell'A.L. perché non sospendeva i lavori edili nel cantiere, nonostante fosse a conoscenza delle palesi violazioni degli artt. 68 DPR 164/1956 (aperture nei solai non adeguatamente protette e recintate), 12.3 D.Lvo 494/1996 (mancata attuazione del piano di sicurezza e di coordinamento), 5 lett. a) D. L.vo 494/1996 (mancata verifica dell'applicazione di quanto riportato nel piano di sicurezza e di coordinamento), 4.5 D.L.vo 626/1994 (mancato possesso del registro degli infortuni), 21 e 22 D.L.vo 626/1994 (mancanza di adeguata informazione dell'operaio A.L. in materia di sicurezza e salute dei la-voratori), 27.1 DPR 164/1956 (sottoponti di sicurezza non montati a distanza non superiore a metri 2,50), 24 DPR 164/1956 (impalcati ed andatole di altezza superiore a metri 2 non muniti di correnti e tavole fermapiede sui lati verso il vuoto), 69 DPR 164/1956 (scale non dotate di parapetti sui lati aperti), 70 DPR 164/1956 (mancanza di opere provvisionali per l'esecuzione di lavori su tetti, lucernari, coperture e simili), 386 DPR 547/1955 (lavoratori sforniti di cinture di sicurezza).
Ne derivava che, nel corso dell'illegale prosieguo delle attività edilizie, il lavoratore portandosi verso una stanza al piano rialzato dello stabile in costruzione, passava su alcuni pannelli di legno che coprivano un'apertura nel solaio di tale piano rialzato non adeguatamente segnalata, protetta, o recintata, cosicché i pannelli di copertura, non idonei a sostenere il peso di una persona, si spezzavano determinandone una caduta nel vuoto dall'altezza di circa 4 metri.
In primo grado gli imputati venivano condannati alla pena di anni 2 e mesi 6 di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali, con condanna al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separata sede, e al pagamento a titolo di provvisionale di euro 30.000,00 per ciascuna delle parti civili costituite ed alla rifusione delle spese processuali in favore delle stesse parti civili.
La Corte partenopea, come detto, confermava l'affermazione di responsabilità, pur riducendo la pena.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, A.N., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'eccepita incompetenza territoriale.
Il ricorrente precisa di aver invocato, con il primo motivo di appello, la nullità della sentenza per incompetenza territoriale, trattandosi di fatti commessi in Capodrise (CE) località rientrante nella competenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Sezione distaccata di Marcianise, dove effettivamente iniziava la trattazione del processo che veniva, per l'udienza del 8/5/2012, spostato presso la Sezione Distaccata di Caserta senza nessun avviso per l’imputato.
All'udienza del 14/05/2012 venivano eccepiti l’omesso avviso all'imputato e l'incompetenza per territorio. L'eccezione di incompetenza era rigettata.
La Corte di Appello, sul punto, rende, a detta del ricorrente, una motivazione confusa ponendo la questione tra Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e Sezione Distaccata di Marcianise, mentre l'eccezione proposta riguardava l'avvenuta celebrazione del processo a Caserta piuttosto che a Marcianise.
La sentenza risulta emessa a Caserta.
Evidente sarebbe, quindi, la contraddittorietà e illogicità della motivazione e la violazione dell'art. 8 cod. proc. pen.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce travisamento della prova, vizio di motivazione e violazione dei canoni di valutazione della prova ex art. 192 cod. proc. pen., nonché inversione del corretto ragionamento logico-probatorio.
Il ricorrente riporta il contenuto del secondo motivo di appello con il quale aveva eccepito che l'affermazione di responsabilità dell'imputato A.N. era stata frutto di un esame superficiale e parziale delle risultanze istruttorie, richiamate, nell'impugnato provvedimento, solo parzialmente ed evidentemente confuse, contraddittorie e artificiose.
In particolare, all'eccepita mancanza di riscontri esterni alle dichiarazioni testimoniali, tenuto conto delle tre contraddittorie ricostruzioni del fatto fornite, la corte di appello si limiterebbe, riportando quanto contenuto nella sentenza di primo grado, a fornire "giustificazioni" al comportamento delle persone offese, violando il principio secondo cui il convincimento del giudice deve fondarsi sulle certezze emergenti dal dibattimento e non su semplici sensazioni.
Il ricorrente ritiene che i giudici di appello abbiano operato una valutazione superficiale dell'ampia attività dibattimentale come dimostrato dall'articolazione della sentenza che ricalca il provvedimento di primo grado.
Anche l'avvenuta acquisizione del contratto di appalto, in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, sarebbe stata superficialmente liquidata con l'affermazione di scarsa valenza del documento per l'assenza della data, che invece risulterebbe chiaramente indicata nella prima pagina del contratto, dove si legge: ".... l'anno 2004 il giorno 3 del mese di novembre. ..."
Ciò dimostrerebbe una non attenta lettura della scrittura che costituirebbe il rapporto intervenuto tra il committente e l'impresa prevedendo l'affidamento dell'incarico della direzione del cantiere ad un tecnico abilitato.
Sarebbe evidente, quindi, la violazione della lett. d) del Io comma dell'art. 606 cod. proc. pen. trattandosi di una prova decisiva.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e vizio di motivazione in quanto l'impugnato provvedimento non fornirebbe alcuna risposta ai motivi di appello limitandosi a riproporre le argomentazioni del primo giudice.
In particolare, sull'eccepita carenza di riscontri alle dichiarazioni e sull'analitica indicazione delle contraddizioni contenute nelle dichiarazioni dei testi la Corte distrettuale si limiterebbe richiamare quanto argomentato nella trattazione delle altre posizioni processuali tralasciando che le doglianze prospettate dalla difesa di A.N. erano relative a circostanze diverse da quelle sollevate dai difensori dei coimputati.
Il ricorrente riporta, quindi, le contraddizioni rilevate evidenziando l'inattendibilità del teste F.V., le cui dichiarazioni sono state determinanti, secondo la tesi del giudice di primo grado, per far ritenere verosimile la terza ricostruzione dei fatti ossia la collocazione del luogo dell'infortunio sul cantiere in via OMISSIS a Capodrise.
Su tali doglianze, ulteriori rispetto a quelle rappresentate dalle difese degli altri imputati, nulla direbbe l'impugnato provvedimento, così come non fornirebbe adeguata motivazione alle doglianze difensive sull'estraneità del A.N. a qualsiasi forma di responsabilità.
Ciascuna delle doglianze contenute nell'atto di appello, relative all’assenza di riscontri alla ritenuta ricostruzione del fatti in riferimento al luogo dell'Infortunio, alla contraddittorietà delle dichiarazioni delle persone offese, alla non attendibilità del teste F.V., alla responsabilità del cantiere regolarmente attribuite a persone diverse dal A.N. che non aveva alcuna ingerenza nelle decisioni del cantiere chiuso come da verbali redatti dal coordinatore della sicurezza, sarebbe dotata di adeguata specificità, coinvolgendo, rispetto ai passaggi della sentenza di primo grado, sicuri elementi di novità critica che il giudice di appello avrebbe del tutto trascurato di considerare, incorrendo in una palese violazione della funzione del doppio grado di giurisdizione.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione in relazione alla affermazione di responsabilità dell'odierno ricorrente.
Il difensore ricorrente eccepisce il mancato riscontro negli atti della ritenuta posizione di datore di lavoro del A.N., nonché della sua costante presenza in cantiere. Precisa che il cantiere era chiuso, come da verbale dell'arch. Gabriele T.M., che riferiva della presenza di A.N. solo al fine di verbalizzare la chiusura dello stesso cantiere, mentre la Corte distrettuale avrebbe valorizzato tale dichiarazione per affermarne erroneamente la costante presenza.
Del tutto priva di riscontro sarebbe anche la ritenuta non provata esclusione del A.N. dai poteri decisionali nella gestione dei lavori, che, lo si ripete, al momento dei fatti erano sospesi.
Nessun riscontro sarebbe, poi, stato fornito dalla sentenza impugnata sul profilo della conoscibilità della situazione di pericolo, dal momento che il ricorrente era privo della necessaria conoscenza tecnica che non gli potesse consentire certamente di percepire un pericolo dallo spessore delle tavole utilizzate di 3 cm. rispetto a quelle che sarebbero state adeguate dello spessore di 4 cm.
Pertanto, si duole il ricorrente, i giudici di merito avrebbero stravolto il consolidato orientamento giurisprudenziale sull'esclusione della responsabilità del committente: Sent.17178 del 11/7/2013.
Con il quinto motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla rigettata sospensione della provvisionale.
Il ricorrente rileva vizio della motivazione posta a sostegno del giudizio negativo al fine della concessione delle attenuanti generiche dal momento che non sussisterebbe prova o indizio del coinvolgimento del A.N. nella ritenuta ipotesi di inquinamento delle indagini, né tantomeno della conoscenza di lavoratori in A.N.. Il ricorrente ribadisce che A.N. riteneva il cantiere ormai chiuso.
Parimenti viziata sarebbe la motivazione del mancato accoglimento della richiesta sospensiva della sentenza. Chiaramente semplicistica appare l'affermazione che non risulta provato il danno grave ed irreparabile.
Certamente, conclude il ricorrente, può costituire un danno essere sottoposto ad una procedura esecutiva per la somma di € 90.000,00 senza alcuna prospettiva di recupero sugli altri coimputati decisamente privi di solvibilità.
La motivazione non risponderebbe alle doglianze difensive, limitandosi ad una soggettiva affermazione sulla eccessività della somma senza alcun parametro di riferimento o motivazione specifica.
Chiede, pertanto, l'annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata.
1. I proposti motivi appaiono tutti infondati e, pertanto, il ricorso va rigettato.
2. Quanto al primo motivo di ricorso, di natura processuale, dall'esame degli atti, cui questa Corte di legittimità ha ritenuto di accedere in ragione della natura processuale della doglianza, si evince che, effettivamente, il processo che ci occupa, cui man mano ne erano stati riuniti vari, fu celebrato dal GM Crisci, fino all'udienza del 23/3/2012 presso la Sezione Distaccata di Marcianise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Dalla successiva udienza del 5/6/2012 in poi, invece, il processo proseguì, per ragioni organizzative, con il medesimo giudice, presso la Sezione Distaccata di Caserta del medesimo Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Ebbene, il difensore lamenta che il proprio assistito, contumace, avrebbe dovuto essere informato che il processo proseguiva presso altra sede.
La doglianza, tuttavia, è infondata.
Il processo, infatti, non è stato spostato ad altro ufficio giudiziario, ma, per mere ragioni organizzative, è proseguito, con il medesimo giudice, in un luogo fisico diverso, presso una sede che, peraltro, è un'articolazione del medesimo tribunale (cfr. art. 163bis disp. att. cod. proc. pen.). E, come correttamente ebbe anche a rilevare lo stesso GM sammaritano all'udienza del 5/6/2012, rigettando l'eccezione difensiva, i difensori erano ben edotti dello spostamento si sede, tanto è vero che erano presenti, ed essendo gli imputati contumaci, gli stessi erano rappresentati dai propri difensori e non avevano diritto ad alcuna notifica.
3. Infondati appaiono anche i motivi di ricorso fondati sulla mancanza di riscontri alle deposizioni rese ed alla scarsa attendibilità dei testi.
Perfettamente logica e congrua appare la ricostruzione dei fatti operata e anche la motivazione sull'iniziale reticenza delle parti civili e degli altri operai.
Legittimo appare il richiamo operato dai giudici di appello alla motivazione già resa in relazione agli altri imputati sulla pretesa contraddittorietà delle dichiarazioni, dal momento che a prescindere dalla diversa posizione processuale degli imputati tutti lamentavano tale contraddittorietà.
Come ricorda la Corte territoriale, il fatto attiene ad un infortunio sul lavoro avvenuto il 9 settembre 2005, a seguito del quale A.L. riportava un "trauma cranico commotivo in policontuso", per cui, dopo alcuni giorni di ricovero in ospedale, decedeva (per "arresto cardiocircolatorio da insufficienza respiratoria per stato comatoso, in soggetto con trauma cranico e toracico ed operato di craniotomia decompressiva ed evacuazione di ematoma sottodurale acuto) in data 24/9/05.
I giudici del gravame del merito ricordano anche che la ricostruzione dell'incidente non fu facile, perché resa particolarmente complessa dai comportamento reticente delle persone informate sui fatti. Ma, alla fine, il giudice di primo grado, dopo un attento esame delle deposizioni testimoniali rese durante l'espletamento della lunga istruttoria dibattimentale, della documentazione acquisita e della relazione tecnica espletata dal Consulente del PM dott. M.M., ritenendo unica plausibile la ricostruzione offerta da F.V. (operaio che lavorava insieme all'A.L. alle dipendenze di DF.D. e che il giorno dell'infortunio si trovava sul cantiere) ebbe a ritenere veritiera la ricostruzione offerta da quest'ultimo.
F.V., l'operaio che ha dichiarato di essere stato testimone oculare dell'infortunio, ebbe a riferire -come ricorda il giudice di prime cure- che la mattina del nove settembre stava lavorando con il collega A.L. alle dipendenze della DF.D. Costruzioni presso il cantiere di via OMISSIS di Capodrise e che, nel corso della pausa pranzo, il collega, recandosi verso il camion dell'impresa, "era caduto in un'apertura ampia due metri per due coperta da tavole di legno, attraverso, la quale doveva realizzarsi la scala di collegamento tra il piano terra e il garage". Il teste spiegava che l'apertura era protetta da alcune tavole di legno di due metri per cinquanta centimetri e dello spessore di tre centimetri, in uno stato talmente cattivo che egli le giudicava da buttare; riferiva che quelle tavole erano poggiate su quell'apertura da mesi e che il DF.D. e il F.M. avevano raccomandato espressamente agli operai che non dovevano camminarci sopra. Ricordava che nei giorni seguenti all'Infortunio questi ultimi gli avevano chiesto di mentire agli ispettori del lavoro, raccontando che i fatti si erano verificati presso 'il cantiere di via Cirillo per una caduta da uno scaletto; quando il F.M. aveva appreso che invece aveva raccontato la verità, era stato licenziato (dopo avere lavorato per cinque anni "a A.N." alle dipendenze di quei datori).
Ebbene, alla luce di tali elementi, con motivazione priva di aporie logiche, i giudici di merito hanno ritenuto che l'unica dinamica dei fatti possibile fosse la terza, ovvero quella raccontata dal F.V., secondo cui A.L. il 9/9/2005 stava lavorando presso il cantiere di via OMISSIS di Capodrise quando, camminando sopra delle tavole di legno che coprivano un'apertura sul piano di calpestio attraverso la quale doveva passare la scala di collegamento tra piano terra e garage, cadeva per il cedimento di tali tavole e, dopo un volo di quattro metri, impattava sul piano di calpestio sottostante. Da tale impatto violento derivavano le gravi lesioni toraciche e craniche che conducevano al suo, decesso dopo due settimane di ricovero in ospedale. D'altro canto - come rilevava già il giudice di primo grado- tale dinamica dei fatti spiega anche più agevolmente, rispetto ad una caduta da uno scaletto a libro alto circa un metro, le lesioni con esito letale riportate dall'A.L..
4. Nell'immediatezza dei fatti, dunque, come raccontato dagli agenti di PS del Commissariato di Marcianise, che avevano svolto le indagini era risultato difficile stabilire anche il luogo in cui era occorso l'infortunio e, dalle dichiarazioni rese dalle persone presenti in ospedale (la moglie dell'A.L. ed una vicina di casa) si era dapprima parlato di un incidente avvenuto nell'abitazione della vittima. Solo il giorno seguente sentite alcune persone informate sui fatti, le indagini erano state indirizzate verso un cantiere edile, sito in via Cirillo a Capodrise, dove venne sequestrato uno scaletto in ferro dal quale sarebbe avvenuta la caduta dell'A.L..
Solo dopo il decesso del predetto avvenuto il 24/9/05, nel dubbio che l'infortunio potesse essersi verificato a causa della caduta da uno scaletto, furono approfondite le indagini, ciò anche perché da fonti confidenziali si venne a conoscenza che l'infortunio si era verificato in un altro cantiere, gestito sempre da DF.D. ma sito in Capodrise alla via OMISSIS.
Eseguito un sopralluogo, insieme agli ispettori della ASL (in data 3/10/05), effettivamente, ivi veniva ritrovata un'apertura di due metri per due coperta da tavole, sovrastanti circa 4 metri dal piano di calpestio (in tale vano doveva essere posizionato un ascensore) dove era il garage.
Gli ispettori avevano rilevato una serie di violazioni alla normativa in materia di prevenzione di infortuni (le misure idonee da adottare per prevenire il rischio di caduta attraverso quell'apertura sarebbero state alternativamente quella di predisporre un parapetto lunghi i bordi dell'apertura o delle tavole dello spessore di almeno quattro centimetri fissate al suolo) perché le tavole erano di uno spessore inferiore a 4 cm ed erano semplicemente poggiate a terra. Non erano state riscontrate tracce ematiche.
Come si legge nella sentenza impugnata, la sopra ricordata deposizione di F.V., unitamente a quella di A.F., figlio della vittima, sono state ritenute chiarificatrici dell'intera vicenda.
A.F. era stato risentito presso il Commissariato P.5. di Marcianise ed aveva specificato che nell'immediatezza aveva riferito che il padre si era fatto male, cadendo da uno scaletto mentre lavorava presso il cantiere di via Grillo, in quanto tali circostanze gli erano state riferite in ospedale da DF.D. e che, in realtà, V.F., collega di lavoro del padre, gli aveva riferito circostanze differenti quando, subito dopo l'infortunio, si era recato presso il suo bar per comunicargli che il genitore era stato ricoverato in ospedale Il predetto gli aveva raccontato che il padre era caduto attraverso una botola nel garage dello stabile in cui stavano lavorando e che al momento del fatto, sul cantiere si trovavano solo loro due e che, per trasportarlo in ospedale, aveva dovuto chiedere aiuto a F.M., che si trovava in un bar vicino al cantiere Precisava che F.V., quando si era presentato presso il suo bar, aveva ancora gli abiti sporchi di sangue, tanto che si era lavato nel suo bagno.
F.V., dal suo canto, aveva riferito che conosceva A.L. poiché lavoravano insieme alle dipendenze di DF.D. e che il giorno dell'infortunio si trovava presso il cantiere di via OMISSIS in Capodrise, e quella mattina su indicazione di F.M. e DF.D. dovevano realizzare i tramezzi e buttare la calce sui telai delle porte. Verso mezzogiorno lui e l'A.L., dopo aver pranzato, (alle ore 13,10 circa), mentre F.M. si era allontanato e lui si era seduto nel cantiere al piano terra, l'A.L. si era alzato per portare la borsa nel camion, quando lungo il tragitto era caduto attraverso "una botola", nel garage sottostante. Riferiva di avere sentito un rumore e poi, di avere visto a terra l'A.L.. Precisava che, sulla botola, erano posizionati dei pannelli di legno e che il rumore era stato causato proprio dal cedimento di uno di quei pannelli rotto dal peso dell'A.L. mentre era intento a percorrerli. A seguito delle sue grida era immediatamente corso a chiamare il F.M. che, si trovava al bar vicino ed, insieme, avevano provveduto a trasportare l'infortunato all'ospedale di Marcianise, a bordo del camion Riferiva, poi, che nei giorni successivi all'evento lesivo F.M. e DF.D. gli avevano chiesto di mentire e di raccontare che l'infortunio non si era verificato nel cantiere di via OMISSIS, bensì in quello di Rione Cantone e che l'A.L. fosse caduto da uno scaletto, mentre faceva un rappezzo. Riferiva, inoltre che, quando il F.M. aveva saputo che aveva raccontato la verità, l'aveva licenziato.
La conferma delle dichiarazioni rese dal F.V., circa il tentativo dell'imputato DF.D. di sviare le indagini -ricorda ancora la sentenza impugnata- viene individuata nel racconto di T.M., pavimentista che, all'epoca dei fatti, pure lavorava alle dipendenze della DF.D. Costruzioni.
Il T.M. riferiva che la sera dell'Infortunio era stato contattato dal DF.D., il quale gli aveva raccontato l'accaduto, specificando che la caduta si era verificata presso il cantiere Europa (dove egli non aveva mai visto lavorare l'A.L.), mentre qualche giorno dopo gli aveva chiesto di dichiarare di aver assistito alla caduta dell'A.L. dallo scaletto, sicché in un primo momento si era dichiarato disponibile, ma, poi, appresa la gravità dei fatti, aveva ritrattato il tutto, riferendo quanto realmente accaduto agli ispettori del lavoro.
T.G., coordinatore in fase di progettazione ed esecuzione del cantiere di via OMISSIS in Capodrise (aveva anche redatto il piano di sicurezza di coordinamento), aveva, poi, riferito che nel mese di settembre era tornato sul cantiere ed aveva rilevato delle carenze in materia di sicurezza, per cui aveva invitato gli imputati a regolarizzare la situazione prima della ripresa delle lavorazioni (sospese per ferie) ed, in particolare, a sistemare i parapetti ed il ponteggio e, visto che essi non provvedevano, a fine settembre aveva, addirittura, minacciato di denunciare il mancato adeguamento. Recatosi, poi, il 4 ottobre al cantiere, lo aveva trovato chiuso.
Già il giudice di primo grado, peraltro, pur avallando la ricostruzione fornita da F.V., perché ritenuta più plausibile alla luce dell'intera istruttoria espletata non si è sottratto ad un attento vaglio delle altre ricostruzioni.
La sentenza impugnata, pertanto, sotto il profilo della ricostruzione del fatto, non si presta a censure di legittimità.
5. E nemmeno si presta a censure sotto il profilo dell'individuazione delle responsabilità.
L'odierno ricorrente A.N. -come si legge a pag. 11 della sentenza impugnata- era il committente, ed anche il direttore dei lavori, in quanto era stabilmente presente in cantiere, partecipando attivamente all'andamento dello stesso, e non risulta provata la sua esclusione dai poteri decisionali inerenti la gestione del cantiere.
Il F.V., come ricorda sempre il giudice di primo grado a pag. 8 della propria sentenza precisava che nel, corso dell'esecuzione dei lavori il committente A.N., proprietario dell'immobile e direttore dei lavori, frequentava il cantiere recandovisi quasi quotidianamente. E anche il responsabile per la sicurezza T.G. si recava in loco di frequente durante l'orario di lavoro, "un giorno sì e un giorno no". I lavori erano giunti alla fase della realizzazione delle tompagnature e la botola nella quale era caduto l'A.L. doveva essere il vano di passaggio di una scala.
Il medesimo teste specificava che la persona che dirigeva il cantiere, e che dava le disposizioni sulle lavorazioni era F.M.; il A.N. invece non impartiva loro ordini ma si confrontava con il F.M. ed il DF.D., con i quali dava la sensazione "di concertare l'andamento delle lavorazioni".
Il giorno dell'infortunio - riferiva ancora il F.V.- il A.N. non era presente sul cantiere ma vi era stato due o tre giorni prima; specificava, come detto, che la botola era coperta con quelle tavole in legno da mesi e ("loro") il F.M. e il DF.D. avevano avvisato di non camminarci sopra (pag. 23 della trascrizione della deposizione). Le tavole erano tre ed erano dello spessore di tre/quattro centimetri, larghe cinquanta centimetri per due metri ed erano vecchie in quanto il legno era deteriorato, marcio, "da buttare" (pagi 33 della trascrizione della deposizione).
L'odierno ricorrente, dunque, rivestiva una duplice posizione di garanzia, in quanto era il committente e dirigeva, di fatto, il cantiere.
Non sfugge che, in un caso come quello che ci occupa, basterebbe già la prima a delinearne la responsabilità penale.
Costituisce, infatti, giurisprudenza consolidata di questa Corte quella che vuole, in materia di responsabilità colposa, che il committente di lavori dati in appalto debba adeguare la sua condotta a fondamentali regole di diligenza e prudenza scegliere l'appaltatore e più in genere il soggetto al quale affida l'incarico, accertando che tale soggetto sia non soltanto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa. Egli ha l'obbligo di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati (cfr. ex multis Sez. 3, n. 35185 del 26/4/2016, Marangio, Rv. 267744 in un caso relativo alla morte di un lavoratore edile precipitato al suolo dall'alto della copertura di un fabbricato, nella quale è stata ritenuta la responsabilità per il reato di omicidio colposo dei committenti, che, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, si erano rivolti ad un artigiano, ben sapendo che questi non era dotato di una struttura organizzativa di impresa, che gli consentisse di lavorare in sicurezza).
E' pur vero che è stato di recente precisato - e va qui riaffermato- che in tema di infortuni sul lavoro, il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente, dal quale non può tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo, (cfr. Sez. 4, n. 27296 del 2/12/2016 dep. il 2017, Vettor, Rv. 270100 in una fattispecie in tema di appalto di lavori di pulizia all'Interno dell'azienda, in cui la Corte ha annullato la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità del committente in relazione al reato di lesioni colpose, per aver dato incarico ad un lavoratore di pulire il piazzale della ditta usando soda caustica, senza assicurarsi che il datore di lavoro appaltatore avesse spiegato al dipendente la necessità di cambiare gli indumenti contaminati dalla predetta sostanza pericolosa; conf. Sez. 4, n. 44131 del 15/7/2015, Heqimi ed altri, Rv. 264974-75).
Rimane anche fermo il principio che, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d'appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in de-terminate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (così la condivisibile Sez. 3, n. 12228 del 25/2/2015, Cicuto, Rv. 262757 che, in applicazione del principio, ha escluso che potesse andare esente da responsabilità il committente che aveva omesso di attivarsi per prevenire il rischio, non specifico, di caduta dall'alto di un operaio operante su un lucernaio). Tuttavia va anche ribadito -ed è il caso che ci occupa- che il committente è titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore qualora l'evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini (cfr. Sez. 4, n. 10608 del 4/12/2012 dep. il 2013, Bracci, Rv. 255282, in un caso di inizio dei lavori nonostante l'omesso allestimento di idoneo punteggio).
Vale anche l'ulteriore precisazione che il committente, anche nel caso di affidamento dei lavori ad un'unica ditta appaltatrice (c.d. cantiere "sotto - soglia"), è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l'infortunio, sia per la scelta dell'impresa - essendo tenuto agli obblighi di verifica imposti dall'art. 3, comma ottavo, D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494 - sia in caso di omesso controllo dell'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro (così Sez. 4, n. 23171 del 9/2/2016, Russo ed altro, Rv. 266963, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto la responsabilità a titolo di omicidio colposo del committente, il quale aveva omesso non solo di verificare l'idoneità tecnico professionale della ditta appaltatrice, in relazione alla entità e tipologia dell'opera, ma anche di attivare i propri poteri di inibizione dei lavori, a fronte della inadeguatezza dimensionale dell'impresa e delle evidenti irregolarità del cantiere).
6. Il A.N., in ogni caso, come si è detto, non solo era il committente dei lavori, ma era costantemente presente in cantiere, concordando con l'impresa i lavori da eseguire.
Sotto i suoi occhi si svolgeva un'attività, con maestranze al A.N. e con il totale spregio della normativa antinfortunistica, la cui pericolosità non poteva sfuggirgli.
Si palesa, peraltro evidente l'assoluta ininfluenza che vi fosse un contratto di appalto che prevedesse la nomina di un preposto ai lavori.
Costituisce, infatti, ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte l'affermazione che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione (così questa Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253850 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l'esistenza di un preposto di fatto).
In relazione al motivo di ricorso fondato sull'avvenuta chiusura del cantiere in cui è avvenuto l'incidente, lo stesso oltre che inammissibile in quanto non è proponibile in questa sede un accertamento del merito, appare infondato in quanto chiaramente acclarata e congruamente motivata è la ragione per cui i giudici di merito hanno ritenuto accertato che l'incidente sia effettivamente accaduto nel cantiere formalmente chiuso. Anzi proprio l'avvenuta formale chiusura del cantiere rende il committente responsabile dell'incidente, dal momento che lo stesso, a prescindere da una sua effettiva ingerenza nella direzione dei lavori, non poteva in qualità di proprietario non sapere della continuazione dei lavori e della pericolosità del cantiere tanto da chiuderlo formalmente.
7. I giudici di merito fanno buongoverno dei principi più volte affermati da questa Corte secondo cui l’applicazione del principio di colpevolezza d’altro canto esclude un automatico addebito di responsabilità a carico di chi ricopre una posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare (generica o specifica) e della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (la cosiddetta "concretizzazione del rischio".
Ebbene nel caso che ci occupa correttamente è stato ritenuto che la caduta dell’A.L., seguita al cedimento delle tavole di legno poste a copertura di un'apertura delle dimensioni di due metri per due presente nel cantiere dove stava lavorando, rappresenti proprio la concretizzazione dell'unico rischio ipotizzabile legato all'esistenza di quell'apertura, appunto la caduta dall'alto.
Quell'ampio vano, infatti, si apriva in un solaio che distava quattro metri, dal piano di calpestio sottostante, di guisa che la caduta da tale altezza era altamente probabile data l'ampiezza dell'apertura, oltre che pericolosissima, poiché un volo di quattro metri con impatto su una superficie dura importa certamente lesioni gravissime se non la morte dell'infortunato.
Le uniche due misure di sicurezza utilizzabili per, ovviare a tale unico prevedibile rischio, di facile individuazione ed adozione, anche, in considerazione del loro esiguo costo, erano alternativamente, quella della predisposizione di un parapetto sui bordi dell'apertura - sufficientemente alto e resistente -, o quella della copertura del vano con tavolate fissate al suolo fatte di materiale calpestabile e, se in legno, dello spessore non inferiore a quattro centimetri (come riferito dell'ispettore del lavoro A.).
Nel caso che ci occupa, invece, nessuna delle due misure è stata adottata, né quella del parapetto né quella della copertura idonea atteso che, per come riferito dal teste F.V., le tavole utilizzate non erano fissate al suolo ed erano in cosi cattivo stato che le aveva giudicate "da buttare,".
Non va trascurato, a riscontro delle dichiarazioni del F.V., che il mese successivo all'infortunio l'ispettore A., in occasione del sopralluogo effettuato presso quel cantiere, ebbe a riscontrare ché l'apertura era ancora esistente e che era coperta da tavole di legno semplicemente poggiate al suolo e non fissate e di uno spessore inferiore ai quattro centimetri.
Tale ultimo elemento - rilevano condivisibilmente i giudici del merito- sconcerta se si pensa che nemmeno l'infortunio mortale dell'A.L., già deceduto al momento del sopralluogo degli ispettori dell'A.S.L. presso il cantiere di via OMISSIS, ha rappresentato un motivo sufficiente per mettere in sicurezza quell'amplissima apertura.
8. Ancora, va rilevata l'infondatezza del motivo di ricorso che attiene alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
I giudici del gravame del merito, hanno dato infatti conto del loro diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche valutando, negativamente, per tutti gli imputati, come la condotta sia gravissima, se si considera che i lavoratori impiegati su quel cantiere erano tutti assunti in A.N., ovvero sicuramente l’A.L. e il F.V. ma anche i muratori albanesi cui ha fatto cenno quest'ultimo nel corso dell'esame dibattimentale. Inoltre T.G., coordinatore in fase di progettazione ed esecuzione del cantiere di via OMISSIS, aveva contestato ripetutamente nel mese di settembre l'inadeguatezza delle misure di sicurezza adottate in quel cantiere, facendo espresso riferimento all'assenza di parapetti e ponteggi, giungendo fino alla sospensione del cantiere e alla minaccia di sporgere, denuncia alle autorità competenti.
Il provvedimento impugnato appare collocarsi nell'alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità, che ha più volte chiarito che, ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (così Sez. 3, n. 23055 del 23/4/2013, Banic e altro, Rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell'imputato, nonché al suo negativo comportamento processuale).
Va ricordato che, in caso di diniego, soprattutto dopo la specifica modifica dell'articolo 62 bis c.p. operata con il d.l. 23.5.2008 n. 2002 convertito con modif. dalla I. 24.7.2008 n. 125 che ha sancito essere l'incensuratezza dell'imputato non più idonea da sola a giustificarne la concessione va ribadito che sarebbe stato assolutamente sufficiente che il giudice si fosse limitato a dar conto, di avere ritenuto l'assenza di elementi o circostanze positive a tale fine.
E in ogni caso è pacifico il dictum di questa Corte secondo cui, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (così sez. 2, n. 3609 del 18.1.2011, Sermone ed altri, rv. 249163; conf., ex plurimis, sez. 6, n. 7707 del 4.12.2003 dep. il 23.2.2004, Anaclerio ed altri, rv. 229768).
In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, secondo una giurisprudenza univoca di questa Corte Suprema, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell' imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (così, ex plurimis, Sez. 1, n. 29679 del 13/6/2011, Chiofalo ed altri, Rv. 219891; Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381; Sez. 1 n. 12496 del 21/9/1999, Guglielmi ed altri, Rv. 214570; Sez. 6, n. 13048 del 20/6/2000, Occhipinti ed altri, Rv. 217882).
9. In ultimo, va rilevata l'infondatezza della doglianza circa la mancata sospensione della provvisionale, che la Corte territoriale motiva con la mancata prova del danno grave ed irreparabile cui andrebbe incontro l'appellante con il pagamento della somma indicata in sentenza.
Ebbene, la sentenza impugnata, anche sul punto, si colloca nell'alveo della costante giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini dell'accoglimento della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile al pagamento di una provvisionale è necessaria la ricorrenza di un pregiudizio eccessivo per il debitore, che può consistere nella distruzione di un bene non reintegrabile ovvero, se si tratta di somme di denaro, nel nocumento derivante dal palese stato di insolvibilità del destinatario della provvisionale, tale da rendere impossibile o altamente difficoltoso il recupero di quanto pagato, nel caso di modifica della condanna (così Sez. 5, n. 19351 del 18/12/2017 dep. il 2018, Zambrelli, Rv. 273202 in relazione ad una fattispecie in cui il ricorrente non aveva esposto, se non genericamente, le ragioni a sostegno della richiesta di sospensione, lamentando l'esistenza di un danno grave ed irreparabile in ragione dell'esiguità della pensione da egli percepita, non adempiendo all'onere probatorio richiesto; conf. Sez. 4, ord. n. 28589 del 2/2/2016, Masini, Rv. 267819).
In altri termini, la irreparabilità del danno per chi è chiamato a corrispondere una provvisionale può derivare o dalla circostanza che la somma di denaro liquidata sia particolarmente elevata in rapporto alla disponibilità dell'obbligato, sì che questi corra il rischio di essere privato di beni necessari per le sue esigenze esistenziali; o dalla circostanza che la futura insolvenza del creditore possa mettere in pericolo la possibilità di recupero della futura somma (vedasi al riguardo l'insegnamento di Sez. 4, ord. n. 40075 del 08/05/2015, Montermini e altri, Rv. 264513; Sez. 2, n. 4188 del 14/2010 dep. 2011, Manganello, Rv. 249401; Sez. 4, ord. n. 1813 del 04/10/2005 dep. 2006, Mastropasqua, Rv. 233180).
Tanto precisato, si osserva che in ordine alle capacità economiche delle parti civili, nulla di specifico veniva detto nell'atto di appello al fine di un giudizio sulla capacità risarcitoria delle stesse ove la condanna civile venisse a cadere.
La presenza del pregiudizio grave ed irreparabile non può, infatti, essere desunta dall'entità, in sé, della somma in concreto liquidata a titolo di provvisionale (30.000,00 euro per ciascuna delle parti civili), poiché essa non è particolarmente sproporzionata rispetto al danno arrecato dal delitto contestato (la perdita della vita di A.L.).
10. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle costituite parti civili, liquidate come in dispositivo.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili che liquida in complessivi euro quattromila oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 25 ottobre 2018
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Penale Sent. Sez. 4 Num. 54010 Anno 2018.pdf |
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