Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. n. 2278 | 30 Gennaio 2018
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Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. 30 Gennaio 2018 n. 2278
Infortunio: operaio travolto dalla caduta dell'argano non adeguatamente fissato
Civile Sent. Sez. L Num. 2278 Anno 2018
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: BERRINO UMBERTO
Data pubblicazione: 30/01/2018
L'INAIL ricorse al giudice del lavoro del Tribunale di Pescara per chiedere la condanna della snc Art Edil di De F.M. & P.P., in persona dei soci amministratori F.M. e P.P., in solido fra loro, al rimborso di quanto erogato in dipendenza di un gravissimo infortunio sul lavoro occorso a M.P., dipendente della società con qualifica di operaio, causato dalla violazione di norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro.
Rigettata la domanda e proposta impugnazione da parte dell'Inail, la Corte d'appello de L'Aquila (sentenza del 14.12.2011), ha accolto il gravame ed in riforma della sentenza di primo grado ha condannato la società in solido coi soci, questi ultimi anche in proprio, a pagare all'Inail la somma di € 726.136,09, dopo aver accertato che l'incidente si era verificato per colpa degli appellati, i quali non si erano premurati di fissare l'argano in modo da evitare quanto poi accaduto.
Per la cassazione della sentenza ricorrono F.M. e P.P. con quattro motivi.
Per l'Inail vi è delega, in calce al ricorso notificato, del legale rappresentante al difensore dell'istituto.
1. Col primo motivo, dedotto per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 435 c.p.c., i ricorrenti assumono che nella memoria di costituzione in appello avevano eccepito preliminarmente il superamento, da parte della difesa dell'Inail, del termine di dieci giorni di cui all'art. 435 c.p.c. per la notificazione dell'atto di impugnazione della sentenza di primo grado e a distanza di numerosi mesi dall'emissione del decreto di fissazione dell'udienza, datato 3 agosto 2010, per cui, stante la perentorietà dello stesso termine, la Corte di merito avrebbe dovuto dichiarare l'improcedibilità dell'appello.
2. Il motivo è infondato, non essendo quello di cui al secondo comma dell'art. 435 c.p.c. un termine perentorio ed essendo, invece, sufficiente solo il rispetto dello spatium deliberandi previsto dal terzo comma dell'art. 435 c.p.c. tra la notifica dell'atto di impugnazione all'appellato e la prima udienza di discussione, necessario a quest'ultimo per potersi difendere adeguatamente.
Si è, infatti, statuito (Cass. Sez. Lav. n. 8685 del 31.5.2012) che "nel rito del lavoro, il termine di dieci giorni assegnato all'appellante dall'art. 435, comma secondo, cod. proc. civ., per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza non è perentorio e la sua inosservanza non comporta, perciò, alcuna decadenza, sempre che, come precisato dalla Corte cost., ord. n. 50 del 2010, resti garantito all'appellato uno "spatium deliberandi" non inferiore a quello legale prima dell'udienza di discussione affinché questi possa approntare le sue difese, e purché non vi sia incidenza alcuna del comportamento della parte, in mancanza di differimento dell'udienza, sulla ragionevole durata del processo."
Al riguardo si è ribadito (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 23426 del 16.10.2013) che "nel rito del lavoro, la violazione del termine di dieci giorni entro il quale l'appellante, ai sensi dell'art. 435, secondo comma, cod. proc. civ., deve notificare all'appellato il ricorso, tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l'impugnazione unitamente al decreto di fissazione dell'udienza di discussione, non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell'appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell'udienza di discussione."
3. Col secondo motivo, dedotto per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 442, 414 e 434 c.p.c., i ricorrenti imputano all'Inail di non aver saputo individuare, ai fini del valido esperimento dell'azione di regresso nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili dell'infortunio occorso al dipendente M.P., le norme di sicurezza antinfortunistica che sarebbero state dai medesimi violate, né i profili di colpa della parte datoriale rispetto all'accadimento di tale infortunio, non potendo configurarsi un'ipotesi di responsabilità oggettiva, per cui il giudice di seconde cure avrebbe dovuto dichiarare l'appello inammissibile in considerazione della genericità della domanda.
4. Col terzo motivo, formulato per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 445 c.p.c., i ricorrenti contestano la valenza data dalla Corte di merito, ai fini della decisione, alla sentenza di patteggiamento intervenuta in sede penale a loro carico, senza aver valutato, come aveva invece fatto il primo giudice, anche tutti gli altri elementi di prova facenti parte del compendio istruttorio.
5. Col quarto motivo, formulato per vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., i ricorrenti lamentano il fatto che la Corte d'appello ha mostrato di riconoscere piena attendibilità alle dichiarazioni testimoniali in ordine alla dinamica ed alle cause della verificazione dell'infortunio sul lavoro di cui trattasi che, viceversa, il primo giudice aveva disatteso, senza che lo stesso collegio abbia saputo fornire una motivazione logica e priva di contraddizioni a sostegno della propria decisione di privilegiare l'esito del suddetto mezzo istruttorio.
6. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
Invero, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la Corte territoriale ha mostrato di aver saputo ricavare dall'istruttoria, adeguatamente scrutinata nel suo complesso attraverso il richiamo alle singole testimonianze, agli atti di causa ed alla sentenza penale di patteggiamento, il convincimento, immune da rilievi di legittimità, della colpevolezza della parte datoriale nella causazione dell'evento, colpevolezza consistita sostanzialmente nell'avere i ricorrenti trascurato l'adeguato fissaggio dell'argano elettrico, la cui caduta, in conseguenza dell'improvviso cedimento del palo meccanico che fungeva da puntello, causò l'infortunio che provocò lesioni gravissime al M.P., il cui indennizzo è stato poi oggetto di rivalsa da parte dell'Inail nei loro confronti in qualità di responsabili della verificazione dell'incidente sul lavoro.
7. Né ha pregio l'assunto difensivo secondo cui l'Inail non avrebbe specificato le norme di sicurezza in materia antinfortunistica che sarebbero state violate nella fattispecie, in quanto, una volta che la parte ha esattamente indicato gli elementi di fatto della vicenda infortunistica oggetto di causa, spetta al giudice accertare la violazione o meno delle norme in materia di sicurezza sul lavoro che possono radicare o meno la responsabilità della parte datoriale, accertamento, questo, che la Corte di merito ha compiuto prima di pervenire al convincimento della colpevolezza degli appellati in ordine all'infortunio occorso al dipendente M.P.. Né è condivisibile la censura riflettente l'utilizzazione degli esiti della sentenza penale di patteggiamento, atteso che la Corte territoriale ha dato atto del fatto che una tale sentenza costituiva semplicemente un elemento di cui bisognava, comunque, tener conto, tanto che ha poi mostrato di aver vagliato attentamente tutti gli altri aspetti dell'istruttoria nel suo complesso.
8. Né va dimenticato che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall'art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., è configurabile soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l'obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest'ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (v. fra tante Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007). Inoltre, in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge), (v. al riguardo Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006 e Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).
Orbene, nel caso di specie, la Corte d'appello de L'Aquila ha fornito una motivazione congrua ed immune da vizi di ordine logico-giuridico del proprio convincimento sulla colpevolezza degli appellati in merito alla verificazione dell'incidente che provocò lesioni gravissime al M.P., travolto dalla caduta dell'argano non adeguatamente fissato: invero, la stessa Corte ha fatto riferimento agli esiti istruttori del giudizio di primo grado, alle risultanze della prova testimoniale ed agli elementi del procedimento penale conclusosi con la sentenza di patteggiamento, rilevando, altresì, l'insussistenza di fattori esterni atti ad escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva dei medesimi appellati e l'evento infortunistico occorso al loro dipendente.
9. In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza dei ricorrenti e vanno liquidate come da dispositivo.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna ognuno dei due ricorrenti al pagamento delle spese nella misura di € 2200,00, di cui € 2000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma il 3 ottobre 2017
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