Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 12326 | 26 marzo 2024
ID 21605 | | Visite: 1646 | Cassazione Sicurezza lavoro | Permalink: https://www.certifico.com/id/21605 |
Cassazione Penale Sez. 4 del 26 marzo 2024 n. 12326 / Caduta mortale da una scala posta all'interno del silo
ID 21605 | 02.04.2024
Sentenza Cassazione Penale Sez. 4 del 26 marzo 2024 n. 12326 - Caduta mortale da una scala posta all'interno del silo. Prassi lavorative e obblighi di formazione
Penale Sent. Sez. 4 Num. 12326 Anno 2024
Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente
Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere - Relatore
Dott. CAPPELLO Gabriella - Consigliere
Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere
Dott. CENCI Daniele - Consigliere
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Castrovillari del 24 giugno 2021, riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen., in regime di prevalenza rispetto alle contestate aggravanti, unitamente alle circostanze attenuanti generiche già riconosciute, ha rideterminato in anni uno di reclusione la pena, già condizionalmente sospesa, inflitta nei confronti di A.A. in relazione al reato di cui agli artt. 110 e 589, comma secondo, cod. pen. (perché, in qualità di legale rappresentante responsabile della sicurezza della ditta "Castelsucchi", esercente l'attività di trasformazione di agrumi sito in contrada Caccia di Placido, presso cui era assunto B.B., per colpa generica e per violazione degli art. 18, 37 e 63 D.Lgs. 3 aprile 2008, n. 81; ometteva di dotare di parapetti le passerelle di accesso ai posti di lavoro o di passaggi sopraelevati (SILOS); ometteva di far assistere la vittima B.B., che si trovava all'interno del SILOS, da altro dipendente da altro lavoratore situato all'esterno, presso l'apertura di accesso; ometteva di dotare la scala in uso al B.B. dei ganci di trattenuta; ometteva di avviare i lavoratori a specifici corsi di formazione; assumeva personale privi del certificato alle mansioni rilasciate dal Medico, così per colpa cagionava al B.B. la caduta dalla scala situata all'interno di un silos adibito alla raccolta delle bucce di agrumi, una iniziale riserva di prognosi per poli-trauma - trauma cranico) ed il conseguente decesso (in CC l'11 gennaio 2016).
1.1. Il Tribunale aveva affermato la responsabilità di A.A., in qualità di datore di lavoro, per l'infortunio mortale occorso al lavoratore B.B. ed assolveva per non aver commesso il fatto l'originario coimputato C.C., responsabile della prevenzione da infortuni per la ditta "Castelsucchi", redattore del Documento di Valutazione dei rischi.
In ordine alla ricostruzione dei fatti, l'11 gennaio 2016, nel primo pomeriggio, subito dopo la pausa per il pranzo, presso lo stabilimento per la produzione di succhi di frutta gestito dalla "Castelsucchi", si verificava un grave incidente sul lavoro ai danni dell'operaio B.B., precipitato all'interno di uno dei silos.
In quel momento, altri operai erano presenti sul luogo del sinistro: il lavoratore D.D. assisteva direttamente ad alcune fasi dell'incidente e raccontava che da alcuni giorni uno dei silos dello stabilimento presentava problemi alla tubatura di filtraggio e, essendone necessario l'utilizzo, il B.B. si era reso disponibile a verificare la possibilità di risolvere facilmente il guasto, senza chiamare la ditta di manutenzione.
Dopo venti minuti circa, mentre il B.B. si trovava all'interno del silo, impegnato nella riparazione della perdita, si verificava un altro guasto (blocco del c.d. "buratto", motore che filtrava il succo di arancia), per cui il D.D. chiamava il collega. Il teste dichiarava di essere salito sulla passerella che collegava i silos dello stabilimento e, vedendo il collega sul pavimento in fondo attraverso il foro di apertura posto nella parte superiore del silo, gli riferiva che si era fermato il "buratto". Il D.D.si girava ed iniziava a scendere le scale dalla passerella. Dopo aver percorso pochi gradini, essendosi preoccupato per aver sentito un suono, era tornato indietro per controllare di cosa si trattasse. Sporgendosi per vedere attraverso il foro di apertura del silo, scorgeva sul fondo il corpo del B.B., steso per terra, svenuto. L'operaio dava l'allarme e gli altri colleghi presenti accorrevano. Il teste spiegava che il collega era sceso all'interno del silo, adoperando una scala di metallo mobile non ancorata, comunemente utilizzata in azienda. Confermava che le passarelle non avevano parapetti lungo tutto il percorso e che aveva seguito un corso di formazione, nel gennaio 2016, ma non sapeva se anche il B.B. lo avesse svolto in precedenza. Nello stabilimento il B.B. era un tuttofare e si occupava della riparazione dei piccoli guasti, mentre, nel caso di guasti più difficili da riparare, era chiamata una ditta esterna.
In assenza del datore di lavoro, per eventuali direttive, gli operai si rivolgevano a E.E., altro teste escusso in dibattimento e presente in azienda al momento del sinistro. Il E.E. dichiarava di essere intervenuto perché richiamato dagli altri operai e di avere trovato il B.B. svenuto dentro il silo. La scala era rimasta nella stessa posizione in cui si trovava al momento dell'incidente; era poi fotografata dai Carabinieri, poggiata sul bordo del foro di apertura del silo.
L'appuntato dei Carabinieri F.F. interveniva sul luogo del sinistro assieme al Mar. L.L., che confermava i racconti del D.D. e del E.E. .
L'isp. G.G. della prevenzione dell'ASP di Cosenza, recatosi più volte sul posto, chiariva che il silo ove si era verificato il sinistro era privo di una scala fissata alla parete, presente in molti altri silos analoghi. Per raggiungere il fondo, quindi, occorreva utilizzare una scala esterna mobile che, sulla scorta di precise disposizioni dettate dall'art. 63, All. IV, punto 3.5, d.lvo n. 81 del 2008, precisamente deve necessariamente essere ancorata con ganci di trattenuta. Al momento del sopralluogo, eseguito il giorno dopo il sinistro, dopo il sequestro del silo, i tecnici dell'ASP constatavano che la scala in alluminio non aveva ancoraggi ed era posizionata quasi verticalmente all'interno del silo e che il B.B., sceso dentro, stava procedendo alla riparazione del guasto da solo, senza l'assistenza di un collega che, rimanendo all'altezza dell'apertura del silo, all'esterno, controllasse i suoi movimenti, in violazione dell'art. 63, All. IV punto 3.2.3, d.lvo n. 81 cit. .
Il B.B., operaio presso lo stabilimento, non era stato sottoposto alla necessaria visita medica per certificare la sua idoneità fisica allo svolgimento di quelle mansioni, in violazione dell'art. 18 d.lvo n. 81 del 2008, e senza avere seguito i necessari corsi di formazione, poi svolti dai lavoratori dopo il sinistro, come confermato in dibattimento dal D.D.. Pertanto, secondo il teste G.G., rilevato che la caduta era avvenuta all'interno del silo e non dalla passarella, in parte priva di parapetti, in violazione di plurime norme infortunistiche collegate da un indiscutibile nesso di causalità al sinistro.
Il dr. H.H., medico legale, unitamente al dr. I.I., aveva eseguito l'esame autoptico ed attestava che la vittima presentava fratture molto importanti da ricollegare, quale causa della morte, ad una caduta con precipitazione dall'alto e precisava che la vittima non era affetta da patologie pregresse. Il dr. Cavalcanti in seguito confermava le conclusioni esposte dal collega. La morte era stata determinata dalle plurime fratture craniche conseguenti alla caduta da un'altezza di tre o quattro metri. Il B.B. non presentava patologie pregresse di rilievo, non emergendo ragioni per ipotizzare uno svenimento o un malore, né tanto meno una presunta inabilità allo svolgimento di attività lavorativa.
1.2. Nel respingere le doglianze difensive, la Corte di appello ha rilevato che, secondo il dr. Cavalcanti, il B.B. non presentava patologie pregresse di rilievo e non erano ipotizzabili uno svenimento, un malore o un'inabilità allo svolgimento di attività lavorativa.
Infatti, all'interno della "Castelsucchi" era stata accertata la violazione di tutte quelle cautele finalizzate alla tutela del lavoratore: il datore di lavoro non aveva disposto che il B.B. svolgesse i necessari corsi di formazione, poi effettuati dai lavoratori soltanto dopo il sinistro, come confermato in dibattimento dal teste D.D. .
Perciò, essendo la caduta avvenuta all'interno del silo e non dalla passarella, in parte priva di parapetti, come specificato nel corso del dibattimento dall'isp. G.G. le violazioni alle norme infortunistiche erano certamente connesse da un indiscutibile nesso di causalità al sinistro.
L'attività svolta dal B.B. non poteva essere ritenuta estranea alle sue normali e quotidiane mansioni dell'operaio, come confermato dal D.D. e dal J.J..
L'infortunio, quindi, era riconducibile non ad un comportamento anomalo del lavoratore, bensì a plurime violazioni delle disposizioni antinfortunistiche poste in essere dal datore di lavoro, ed in particolare:
a) art. 63, All. IV, punto 3.2.3 d.lvo n. 81 del 2008; mancata assistenza da parte di altro lavoratore, situato in prossimità dell'apertura di accesso, nonostante il lavoratore stesse prestando la sua opera all'interno del silo e non fosse assistito da un altro lavoratore;
b) art. 63, All. IV, punto 3.5 d.lvo n. 81 del 2008 per assenza di ganci di trattenuta nella scala usata per l'accesso all'interno del silo dal B.B.;
c) art. 37 d.lvo n. 81 del 2008, per mancanza di formazione specifica;
d) art. 18 d.lvo n. 81 del 2008 per mancanza di certificato di idoneità del lavoratore alle mansioni rilasciato dal medico competente.
Come correttamente appurato dall'escussione dei testi J.J. e D.D., l'imputato non aveva mai delegato i compiti di direzione ad altri, anche solo di fatto, e il ruolo di dipendente "anziano" del J.J. non faceva certo sì che sorgesse in capo a quest'ultimo una posizione di garanzia o un obbligo di vigilanza nei confronti degli altri lavoratori dell'azienda.
A tal proposito, pur volendo aderire a tale tesi difensiva (anche nel volere considerare quale straordinaria un'attività di manutenzione che appare, invece, ordinaria in ragione anche della facile identificazione del danno operata immediatamente dal D.D. e dal B.B.), l'ignoranza del datore di lavoro su prassi contra legem perpetrate in azienda non vale ai fini dell'esclusione della colpa dello stesso, integrando essa stessa la colpa per l'omessa vigilanza sui comportamenti del preposto.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, il Tribunale svolgeva un accurato accertamento in ordine alla responsabilità dell'imputato per il fatto commesso, non limitandosi ad attribuire al contenuto delle dichiarazioni rese in dibattimento piena validità, ma rimarcando come le condotte omissive perpetrate dal datore avessero di fatto causato l'evento morte.
2. Il A.A., a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo tre motivi di impugnazione.
2.1. Violazione degli artt. 589 e 41 cod. pen. in ordine alla mancata considerazione della condotta del lavoratore quale fatto interruttivo del nesso di causalità fra la condotta ascritta al datore di lavoro e l'evento.
Si deduce che i giudici di merito hanno aderito ad un modello di responsabilità iperprotettivo, incentrato esclusivamente sulla figura del datore di lavoro e sui suoi obblighi di prevenzione degli infortuni.
Al contrario, la più recente giurisprudenza di legittimità, è passata ad un modello collaborativo dei rapporti fra datore di lavoro e dipendente, valorizzando anche il principio di autoresponsabilità dì quest'ultimo, considerando interruttiva del nesso di condizionamento tra la condotta di questi e l'evento lesivo per il lavoratore la condotta abnorme del lavoratore, quando essa si collochi al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso; tale comportamento è interruttivo, cioè, non perché eccezionale, ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. La condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio proprio della lavorazione svolta e di conseguenza il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore e le sue conseguenze presentino i caratteri dell'eccezionalità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute.
La prima norma di sicurezza predisposta dal datore di lavoro consisteva proprio nel divieto di praticare l'attività di manutenzione straordinaria del silos che in quel momento quest'ultimo stava compiendo, men che meno secondo quelle specifiche modalità. Il D.V.R. del 17 ottobre 2015 (allegato in stralcio ai fini dell'autosufficienza), infatti, alla pag. 70 prevede quanto segue: "E' vietato a chiunque di accedere, sostare o transitare sulla sommità dei silos senza la dovuta predisposizione di idonei apprestamenti contro il rischio di caduta dall'alto"; alla pag. 74, inoltre, stabilisce che: "Tenuto conto che tale intervento rientra nelle competenze dell'azienda proprietaria, nessun dipendente dovrà procedere ad eseguire lavorazioni all'interno del silos".
Ciò, d'altronde, trovava conferma nel contratto, con cui la società rappresentata dall'imputato affittava l'azienda in questione, stipulato per scrittura privata autenticata (allegato in stralcio ai fini dell'autosufficienza), il quale prevede all'art. 3 che: "La manutenzione straordinaria di tutti gli impianti, i macchinari, le attrezzature di ogni genere rimane a totale carico della locatrice per tutta la durata del contratto essendo tali gli accordi intrapresi e determinati ai fini anche del calcolo del canone di affitto".
Il E.E. riferiva dell'uso di dispositivi di sicurezza e di non aver mai consigliato la discesa nei silos; informava, inoltre, che per lavori straordinari erano interessate ditte esterne.
L'attività svolta dal B.B. di sua iniziativa al momento dell'infortunio, pertanto, era avulsa dalle sue attribuzioni, vietata dal datore di lavoro e condotta senza l'adozione degli elementari dispositivi di sicurezza, di cui pure era dotato; con la duplice conseguenza: 1) di interrompere il nesso di causalità fra l'evento-morte per cui è processo e la condotta ascrittagli; 2) che, vietata a monte l'attività, il datore di lavoro non avrebbe dovuto predisporre altri presidi antinfortunistici, l'assistenza da parte di altro lavoratore, situato in prossimità dell'apertura di accesso e formazione specifica, per impedire che da essa non derivassero infortuni.
Il lavoratore deceduto, d'altra parte, era consapevole del divieto (che, se fosse stato rispettato, avrebbe consentito da solo di evitare la produzione dell'evento), tant'è che molteplici buoni di consegna concernevano attività di manutenzione eseguite presso lo stesso stabilimento, ad opera di ditta esterna, dato a conoscenza del lavoratore. Il C. confermava che il B.B. firmava i buoni di consegna.
2.2. Violazione degli artt. 589 e 43 cod. pen. in ordine all'elemento soggettivo del reato.
Si osserva che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto l'ignoranza del datore di lavoro su prassi contra legem perpetrata in azienda non valida ai fini dell'esclusione della colpa, integrando essa stessa la responsabilità per l'omessa vigilanza sui comportamenti del preposto.
Il comportamento tenuto dal lavoratore, infatti, non risultava consuetudinario bensì solo occasionale.
Al A.A. non poteva imputarsi l'omessa vigilanza sulla condotta tenuta nella concreta contingenza dal lavoratore: benché legale rappresentante della società affittuaria dello stabilimento, oltre a non essere ivi presente al momento del fatto, il A.A. non si occupava della gestione di quello specifico impianto.
Secondo i testi G.G. e D.D., il E.E. si presentava come responsabile dello stabilimento. L'originario coimputato D. indicava il E.E. come preposto allo stabilimento.
Il A.A., peraltro, non conosceva la prassi, che aveva determinato il verificarsi dell'evento letale (né l'aveva colpevolmente ignorata). Egli aveva dotato dei prescritti mezzi di protezione individuale anche il lavoratore ed aveva conferito apposita delega ad un soggetto tecnicamente qualificato designandolo quale preposto, per cui non continuava a gravare su di lui l'obbligo del costante e continuativo controllo sull'effettivo impiego dei mezzi di protezione anzidetti.
2.3. Violazione di cui all'art. 606, lett. c), cod. proc. pen. per inosservanza degli artt. 597 cod. proc. pen. e 175 cod. pen. per l'illegittimità del mancato riconoscimento del beneficio della non menzione della sentenza di condanna nel casellario giudiziale.
Si osserva che, nonostante il riconoscimento delle circostanze di cui agli artt. 62 bis e 62, n. 6, cod. pen., la Corte catanzarese non ha risposto alla richiesta difensiva di concessione del beneficio della non menzione.
1. Il ricorso è fondato limitatamente al diniego del beneficio della non menzione della condanna nel certificato giudiziale ed infondato nel resto.
1.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Al riguardo, assume rilievo la questione prospettata dalla difesa circa il comportamento abnorme del lavoratore, che sarebbe di natura tale da escludere il nesso di causalità tra la condotta ascritta al A.A. e l'evento per cui è processo.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente, rientrante nelle mansioni che gli sono proprie, sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222; Sez. 4, n. 7267 del 10/11/2009, dep. 2010, Iglina, Rv. 246695). Perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 5794 del 26/01/2021, Chierichetti, Rv. 280914). Perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un rìschio eccentrico, con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia predisposto anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, Simeone, Rv. 276242).
In linea di principio, la condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio proprio della lavorazione svolta e di conseguenza il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore e le sue conseguenze presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute (Sez. 4, n. 25532 del 23/05/2007, Montanino, Rv. 236991; Sez. 4, n. 21587 del 23/03/2007, Pelosi, Rv. 236721). Non integra il "comportamento abnorme" idoneo a escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l'evento lesivo o mortale patito dal lavoratore il compimento da parte di quest'ultimo di un'operazione che, seppure inutile e imprudente, non risulta eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell'ambito del ciclo produttivo (Sez. 4, n. 7955 del 10/10/2013, Rovaldi, Rv. 259313).
Si è poi affermato, sempre in tema di rilevanza esclusiva del comportamento del lavoratore, secondo un primo orientamento interpretativo circoscritta a condotte tenute in ambito del tutto eccentrico rispetto alle mansioni affidate e come tali imprevedibili da parte del garante - che può essere considerato imprudente e quindi abnorme ai fini causali anche il comportamento che rientri nelle mansioni che sono proprie ma che sia consistito in qualcosa di radicalmente e ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili imprudenti scelte dei lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603; Sez. 4, n. 5007 del 28/11/2008, dep. 2009, Musso, Rv. 275017).
Per concludere sul punto, partendo dal presupposto che ciò che viene rimproverato al datore di lavoro è la mancata adozione di condotte atte a prevenire il rischio di infortuni, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme ed idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, Cimolai, Rv. 284237). Nel caso di specie va dunque valutato se la condotta tenuta dalla vittima fosse o meno prevedibile per il titolare della società coinvolta nell'attività di lavoro, sì da attribuire efficacia causale alle sue eventuali omissioni.
1.2. Ciò posto sui principi giurisprudenziali operanti in materia, la soluzione offerta dalla Corte di appello è sufficiente ed adeguata a sostenere la pronuncia di responsabilità dell'imputato, avendo fatto buon governo dei principi sopra riportati.
Si è logicamente escluso che la condotta tenuta dal lavoratore potesse essere considerata abnorme, in quanto egli si occupava normalmente della riparazione di piccoli guasti, mentre le ditte esterne erano chiamate solo per risolvere problematiche di maggiore complessità. Al momento della caduta mortale, dunque, il lavoratore stava svolgendo mansioni riconducibili al ruolo da lui normalmente ricoperto nell'ambito del ciclo produttivo, e la situazione non ricopriva i caratteri di imprevedibilità, eccezionalità ed eccentricità del rischio richiesti dalla giurisprudenza per l'interruzione del nesso di causalità.
E' irrilevante che, nella fattispecie, la violazione delle direttive impartite da parte del lavoratore, avendo egli compiuto un'attività espressamente vietata. Infatti, qualora l'evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall'area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia, in quanto l'inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio fino a ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall'inerzia del datore di lavoro (Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017, Spina, Rv. 273247). Inoltre, in tema di causalità, la colpa del lavoratore eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché l'esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l'evento morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento (Sez. 4, n. 23292 del 28/4/2011, Milo, Rv. 250710).
Nel caso in esame, la Corte territoriale, con motivazione immune da censure e da vizi logici, ha ritenuto dimostrate plurime violazioni alle normative antinfortunistiche (mancanza dei ganci di trattenuta della scala di accesso al silos; vittima sprovvista della formazione specifica obbligatoria e priva del certificato medico di idoneità alle mansioni; vittima non assistita da altro lavoratore situato in prossimità dell'apertura di accesso), aventi diretta incidenza sul verificarsi dell'evento letale.
2. E' manifestamente infondato anche il secondo motivo di ricorso, con cui si deduce l'insussistenza dell'elemento soggettivo del reato per mancanza di prova della natura abitudinaria del comportamento del lavoratore, in misura tale da assurgere a vera e propria prassi, la cui ignoranza potrebbe essere addebitata al datore di lavoro a titolo di culpa in vigilando; inoltre, non si potrebbe parlare di omessa vigilanza, perché l'imputato non era presente al momento dei fatti e in ogni caso non si occupava della gestione di quello specifico impianto; infine, non sarebbe dimostrato che vi fosse conoscenza o conoscibilità del comportamento del lavoratore da parte del prevenuto.
2.1. Va premesso che, alla luce della normativa prevenzionistica vigente, sul datore di lavoro grava l'obbligo di valutare tutti i rischi connessi alle attività lavorative e attraverso tale adempimento pervenire all'individuazione delle misure cautelari necessarie e quindi alla loro adozione, non mancando di assicurarsi l'osservanza di tali misure da parte dei lavoratori.
In tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve vigilare per impedire l'instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori, con la conseguenza che, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 10123 del 15/01/2020, Chironna, Rv. 278608.
L'obbligo del datore di lavoro di vigilare sull'esatta osservanza, da parte dei lavoratori, delle prescrizioni volte alla tutela della loro sicurezza, può ritenersi assolto soltanto in caso di predisposizione e attuazione di un sistema di controllo effettivo, adeguato al caso concreto, che tenga conto delle prassi elusive seguite dai lavoratori delle quali il datore di lavoro sia a conoscenza (Sez. 4, n. 35858 del 14/09/2021, Tamellini, Rv. 281855, relativa a fattispecie in cui, in applicazione del principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di cui all'art. 589, comma secondo, cod. pen., in relazione all'infortunio occorso al conducente di un trattore, deceduto per non aver fatto uso della cintura di sicurezza, ravvisando la colpa del datore di lavoro nell'omessa nomina di un preposto, nonostante la sua conoscenza della prassi instauratasi in relazione all'inosservanza dell'obbligo di allacciare le cinture di sicurezza, a fronte della quale egli si era limitato a ricorrere a richiami verbali del lavoratori).
In presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi (Sez. 4, n. 32507 del 16/04/2019, Romano, Rv. 276797 - 02).
2.2. Quanto al secondo profilo di doglianza di cui al motivo di ricorso in esame, va ricordato che il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell'espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l'adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore (Sez. 4, n. 8163 del 13/02/2020, Lena, Rv. 278603, relativa a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro per la morte di un lavoratore, ascrivibile al non corretto uso di un macchinario dovuto all'omessa adeguata formazione sui rischi del suo funzionamento; Sez. 4, n. 49593 del 14/06/2018, T., Rv. 274042, che ha precisato altresì che l'adempimento di tali obblighi non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro).
Il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo, ma anche, e soprattutto, controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle (Sez. 4, n. 27787 de! 08/05/2019, Rossi, Rv. 276241, riguardante fattispecie in cui è stata affermata responsabilità del datore di lavoro, che aveva colposamente cagionato la morte di un lavoratore impiegato in attività di taglio di piante in assenza di adeguata formazione, nonostante l'inesperienza e la carenza di conoscenze tecniche del lavoratore nel settore di riferimento).
Peraltro, l'art. 18, comma 1, Iett. d), D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che impone di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi (Sez. 3, n. 13096 del 17/01/2017, Molino, Rv. 269332; Sez. 3, n. 25739 del 15/03/2012, Trentini, Rv. 252977).
In materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega sia espresso, inequivoco e certo ed investa persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, fermo restando, comunque, l'obbligo, per il datore di lavoro, di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (Sez. 4, n. 24908 del 29/01/2019, Ferrari, Rv. 276335; Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109).
A ciò va aggiunto che, in materia di infortuni sul lavoro, l'onere della prova circa l'avvenuto conferimento della delega di funzioni - e del conseguente trasferimento ad altri soggetti degli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro - grava su chi l'allega, trattandosi di una causa di esclusione di responsabilità (Sez. 4, n. 44141 del 19/07/2019, Macaluso, Rv. 277360; Sez. 3, n. 14352 del 10/01/2018, Bulfaro, Rv. 272318).
2.3. In linea coi suesposti consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia di prassi lavorative e di obblighi di formazione ed informazione gravanti sul datore di lavoro, la Corte di merito ha illustrato le ragioni della riconducibilità dell'evento letale al A.A. anche sotto il profilo soggettivo.
La questione del carattere abitudinario del comportamento del lavoratore era stata ampiamente trattata nella sentenza di primo grado, nella parte in cui si era evidenziato che la persona offesa quotidianamente si occupava di tutti i piccoli guasti di facile soluzione, compresi quelli all'interno dei silos, comportamento integrante una vera e propria prassi contra legem.
La Corte distrettuale ha ulteriormente chiarito, con valutazione non sindacabile in sede di legittimità in quanto attinente al merito, che l'imputato svolgeva personalmente le funzioni di direzione dell'impianto, senza delegarle a terzi, assegnatari di tali incombenze in qualità di dirigenti o di preposti, per cui non era sostenibile che egli non fosse obbligato alla vigilanza sui lavoratori.
Si è logicamente il mancato assolvimento degli obblighi di formazione gravanti sull'imputato, accertato da entrambi i giudici di merito, costituisce di per sé elemento sufficiente a fondare un giudizio di colpa specifica, tale da integrare l'elemento soggettivo richiesto per la configurazione del reato.
La procedura impropria seguita dal lavoratore evidentemente costituiva una prassi seguita per determinare un'accelerazione del processo di lavorazione, rientrante presumibilmente in una logica di profitto aziendale.
Il A.A. conosceva tale prassi illegittima, perché, sia pur saltuariamente, era presente in azienda ed impartiva direttive; solo nel caso di sua assenza gli operai seguivano le disposizioni del fratello del A.A. o del E.E. (vedi dichiarazioni dei vari operai). Egli, peraltro, non risultava aver delegato i suoi compiti ad altri soggetti.
K.K., titolare di una ditta di un'officina elettromeccanica, dedita a tutte le riparazioni riguardanti gli impianti elettrici, motori, pompe e quadri elettrici, precisava di non avere mai eseguito lavorazioni di riparazione o manutenzione all'interno dei silos, ma solo nella parte esterna e nello stabilimento. Ciò dimostrava che, la lavorazione effettuata dal B.B. non costituiva il frutto di una scelta estemporanea ed arbitraria.
3. Il terzo motivo di ricorso, con cui si chiede il riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna nel casellario giudiziale di cui all'art. 157 cod. pen. è fondato.
3.1. Occorre premettere che il beneficio della non menzione della condanna di cui all'art. 175 cod. pen. è fondato sul principio dell"'emenda" e tende a favorire il processo di recupero morale e sociale del condannato, sicché la sua concessione è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è necessariamente conseguenziale a quella della sospensione condizionale della pena, fermo restando l'obbligo del giudice di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 16366 del 28/03/2019, Iannaccone, Rv. 275813).
Occorre però sottolineare che i presupposti per il suo riconoscimento sono diversi da quelli della sospensione condizionale della pena perché, mentre quest'ultima ha l'obiettivo di sottrarre alla punizione il colpevole che presenti possibilità di ravvedimento e di costituire, attraverso la possibilità di revoca, un'efficace remora ad ulteriori violazioni della legge penale, il primo persegue lo scopo di favorire il ravvedimento del condannato mediante l'eliminazione della pubblicità quale particolare conseguenza negativa del reato, sicché non è contraddittorio il diniego di uno dei due benefici e la concessione dell'altro, fermo restando l'obbligo del giudice di merito di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 3, n. 51580 del 18/09/2018, M., Rv. 274106; Sez. 3, n. 18396 del 15/03/2017, Cojocaru, Rv. 269638; Sez. 6, n. 34489 del 14/06/2012, Del Gatto, Rv. 253484; Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, Allegra, Rv. 251509).
Peraltro, l'obbligo di motivazione, nella sentenza di appello, del diniego del beneficio della non menzione ricorre solo laddove, con i motivi di impugnazione, siano state dedotte circostanze specifiche che, in base all'art. 133 cod. pen., legittimino la concessione del beneficio stesso (Sez. 3, n. 3431 del 04/07/2012, dep. 2013, Maione, Rv. 254681).
Deve poi essere annullata senza rinvio la sentenza d'appello che abbia immotivatamente disatteso la richiesta di concessione del beneficio della non menzione della condanna, proposta con specifico motivo di gravame, potendo il predetto beneficio essere direttamente disposto dalla Corte di cassazione, anche sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena, allorché ciò non implichi la necessità di svolgere ulteriori accertamenti di fatto, che sarebbero incompatibili con il giudizio di legittimità ed imporrebbero il giudizio di rinvio (Sez. 5, n. 14885 del 15/02/2021, Quattraccioni, Rv. 281028).
3.2. Al riguardo, non può che evidenziarsi la totale lacuna dell'apparato argomentativo sul punto. Nonostante l'analogo motivo di appello fosse stato esplicitamente riportato nell'esposizione in fatto della sentenza impugnata, quest'ultima non ha trattato le tematiche inerenti al trattamento sanzionatorio.
Ebbene, ai sensi dell'art. 620, lett. I), cod. proc. pen., tenuto conto dello stato di incensuratezza dell'imputato e dell'avvenuto integrale risarcimento del danno (dati evincibili dalla lettura delle sentenze di merito), la situazione da correggere è rimediabile senza svolgere accertamenti o compiere valutazioni discrezionali su circostanze e punti controversi, con conseguente concessione del beneficio in questione nella presente sede di legittimità.
4. Per tali ragioni, la sentenza va annullata senza rinvio limitatamente al diniego del beneficio della non menzione della condanna nel casellario del certificato giudiziale di cui all'art. 175 cod. pen., beneficio che va concesso; il ricorso va rigettato nel resto.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla mancata concessione del beneficio della non menzione ex art. 175 cod. pen., beneficio che concede. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma il 10 gennaio 2024.
Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2024.
Descrizione | Livello | Dimensione | Downloads | |
---|---|---|---|---|
Sentenza Cassazione Penale Sez. 4 del 26 marzo 2024 n. 12326.pdf |
118 kB | 19 |
Tags: Sicurezza lavoro Rischio ambienti confinati Abbonati Sicurezza Cassazione