Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 34943 | 21 Settembre 2022
ID 17846 | | Visite: 1584 | Cassazione Sicurezza lavoro | Permalink: https://www.certifico.com/id/17846 |
Cassazione Penale Sez. 4 del 21 Settembre 2022 n. 34943
Infortunio durante le prove di taglio della mozzarella e responsabilità di un RSPP. Ambito di operatività della delega di funzioni. Responsabilità amministrativa dell'ente
Penale Sent. Sez. 4 Num. 34943 Anno 2022
Presidente: DOVERE SALVATORE
Relatore: BELLINI UGO
Data Udienza: 24/05/2022
1.Con sentenza in data 9 Giugno 2016 il Tribunale di Modena riconosceva R. Pier Luigi colpevole del reato di lesioni colpose gravissime ai danni di Y. H. e lo condannava alla pena di giustizia. Al R., in qualità di delegato alla sicurezza della ditta I. s.r.l. era contestato di avere messo a disposizione dei lavoratori nel reparto “cucina formaggi” una macchina, utilizzata per il taglio di pezzature di formaggio, denominata REX Schnellkutter RK 125, pericolosa per l’incolumità dei lavoratori, in quanto priva di dispositivi meccanici o elettronici che impedissero alle mani dei lavoratori l’accesso alle parti taglienti in movimento dell’apparato; era pertanto allo stesso addebitato di non avere adottato alcuna misura idonea ad eliminare i predetti rischi (art.71 comma 1 e 18 comma 1 lett. 2) D. Lgs. 81/2008, nonché di non avere adottato provvedimenti organizzativi tali da limitare l’impiego di tale macchina al personale appositamente addestrato. Ne era conseguito che la Y., priva di formazione nell’uso del predetto macchinario e nonostante la pericolosità dello stesso, invitata ad operare per eseguire prove di taglio della mozzarella per pizze, veniva in contatto con le lame rotanti dell’apparato, ancora in movimento pur dopo l’azionamento del comando di arresto, procurandosi l’amputazione della prima falange del secondo e del terzo dito della mano destra e la sub-amputazione della seconda falange del primo dito della mano destra con lesioni da cui era derivata una malattia superiore a quaranta giorni e l’indebolimento permanente dell’organo della prensione.
2. I. s.r.l. era riconosciuta responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art.25 septies comma 3 D. Lgs. 231/2001 in relazione al delitto di cui sopra, in quanto commesso da soggetto – il R. appunto – che rivestiva la qualifica di rappresentanza e di amministrazione dell’ente e a vantaggio e nell’interesse del medesimo. Veniva disposta altresì la confisca del profitto del reato, determinato nell’importo di euro diecimila.
3. La Corte di Appello di Bologna con sentenza in data 13 Novembre 2020 dichiarava non doversi procedere nei confronti di R. Pier Luigi per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione, mentre confermava le statuizioni emesse nei confronti dell’ente ritenuto responsabile.
La Corte di Appello di Bologna, esclusa la evidenza della prova ai fini della pronuncia di una sentenza assolutoria nei confronti del R. ai sensi dell’art. 129 comma 2 cod. pen., esaminava le doglianze articolate dalla ditta I. s.r.l. volte a escludere i dedotti profili di responsabilità dell’ente per insussistenza del reato presupposto.
Rilevava il giudice distrettuale che risultavano ravvisabili entrambi i profili di colpa specifica contestati al R., quale delegato alla sicurezza di I., sia per avere omesso di adottare provvedimenti organizzativi idonei a impedire ai dipendenti della I., quale era la Y., l’accesso all’area di lavoro, destinata a reparto di lavorazione, peraltro appaltato ad una cooperativa dotata di proprio personale.
Infatti, a fronte di tollerate prassi di promiscua utilizzazione di tali dipendenti nella lavorazione, venivano ravvisate l’assenza di idonea formazione e qualifica degli stessi nell’impiego dei macchinari e l’assenza di interventi volti ad ovviare alle carenze tecniche riscontrate sul predetto macchinario dall’ispettore del lavoro della ASL.
3.1 Quanto al primo profilo la Corte di appello evidenziava che l’istruttoria dibattimentale aveva consentito di accertare che l’impiego della macchina da parte della persona offesa non era il risultato di una imprevedibile ed autonoma iniziativa della dipendente, la quale al contrario risultava avere ricevuto uno specifico incarico in tale senso, e che la condotta di questa non presentava i caratteri dell’abnormità e della esorbitanza rispetto al compito affidato, ma costituiva solo il risultato di una non adeguata formazione e della carenza organizzativa di cui all’addebito colposo.
3.2 Quanto al secondo profilo, la mancanza predisposizione di presidi di sicurezza della macchina, con esposizione del lavoratore al rischio di infortunio a causa dell’assenza di un sistema di bloccaggio delle lame o di distanziamento tra operatore e apparato, costituiva una specifica inosservanza agli obblighi gravanti sul responsabile per la sicurezza, il quale era venuto meno all’obbligo di adeguamento tecnico dei macchinari alle esigenze di sicurezza, anche a favore dei lavoratori idoneamente formati, a nulla rilevando la riconosciuta conformità della macchina alla normativa CE, che non esonerava il responsabile della sicurezza dagli obblighi di aggiornamento delle misure di prevenzione e alle modifiche organizzative volte alla salvaguardia della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro.
A tale proposito la corte territoriale escludeva che in ordine alla titolarità dei suddetti obblighi potesse incidere la circostanza che il reparto in cui si era verificato l’infortunio fosse stato dato in appalto ad una cooperativa, in quanto le carenze organizzative che avevano dato luogo all’evento erano immediatamente percepibili e riferibili alla organizzazione aziendale di I. s.r.I., e specificamente segnalate dai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in occasione di una riunione in data 21 Maggio 2010 con riferimento alla gestione dei rischi determinati da interferenze lavorative.
4. Quanto alla contestata riferibilità della responsabilità dell’infortunio a soggetto investito di posizione apicale dell’ente, ai sensi dell’art. 5 comma 1 lett. a) D. Lgs. 231/2001, la Corte di appello evidenziava che il R. era stato investito, mediante procura speciale, del potere di compiere scelte decisionali in piena autonomia in materia di sicurezza, esclusa ogni ingerenza dell’organo amministrativo e dotato di mezzi finanziari per l’adempimento dei compiti stessi, nei limiti dell’importo di euro 25.000 e pertanto esso accentrava poteri gestionali e di spesa che gli conferivano una veste di soggetto posto al vertice dell’azienda, tantochè aveva sottoscritto il Documento di Valutazione dei Rischi in qualità di datore di lavoro. Non risultava pertanto applicabile l’art. 7 D. Lgs. Citato che escludeva la responsabilità dell’ente in presenza di adozione ed attuazione, da parte di questo, di un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati quali quello verificatosi, in quanto tale esimente rileva soltanto in ipotesi di fatti commessi da soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza di una delle figure indicate dal precedente art. 5.
5. Il giudice distrettuale confermava la sentenza impugnata pure nella parte in cui aveva ravvisato la ricorrenza di un interesse o vantaggio di I. s.r.l. alla base della condotta tenuta dal R. la quale risultava ispirata dal duplice intento di pervenire ad un risparmio di spesa, corrispondente alla eliminazione dei costi necessari per la messa in sicurezza della macchina e per la predisposizione di presidi tecnici e organizzativi volti a precludere l’ingresso dei dipendenti I. nel reparto appaltato, ed inoltre di massimizzare la produzione sulla base di una “duttilità organizzativa”, che si manifestava nel consentire ai dipendenti di muoversi liberamente tra i reparti nonostante l’assenza di adeguata formazione.
6. Legittima doveva poi ritenersi la confisca disposta ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. 231/2001 pari all’importo di euro diecimila euro parametrato, in termini prudenziali, al presumibile costo per eseguire interventi di messa in sicurezza del macchinario (braccetto distanziatore), di informazione e di segnaletica sui luoghi di lavoro e al vantaggio conseguito dall’ente nella massimizzazione della produzione.
7. Quanto al trattamento sanzionatorio, assumeva che lo stesso non potesse essere ulteriormente ridimensionato laddove, già ridotto della metà ai sensi dell’art. 12 comma 2 lett. b) D. Lgs. 231/2001 in presenza di modello organizzativo e preventivo con costituzione di organo di vigilanza, non poteva trovare integrale applicazione il suddetto comma 2 per non essere stata data la prova dell’integrale risarcimento prima del giudizio, non potendo lo stesso presumersi sulla base dell’intervenuta revoca della costituzione di parte civile.
8. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la difesa di I. s.r.l. articolando quattro motivi di doglianza.
8.1 Con una prima articolazione deduce violazione degli art. 40 comma 2, 41 comma e 590 cod. pen. in relazione agli art. 18 e 71 D. Lgs. 81/2008 in relazione alla ritenuta sussistenza del reato presupposto di lesioni colpose; violazione degli art. 187, 192, 530, 533 e 546 cod. proc. pen. che ha comportato un difetto motivazionale nonché violazione degli art.25 septies e 66 D. Lgs. 231/2001.
8.1.1 In particolare il ricorrente lamenta una erronea valutazione dei principi in materia di causalità della colpa sulla base degli elementi acquisiti all’esito dell’istruttoria dibattimentale in relazione alle fasi della lavorazione che avevano preceduto l’evento lesivo. Non era stato in particolare esplorato se il responsabile della sicurezza, prosciolto per intervenuta prescrizione e, a cascata, l’ente, potessero prevedere, a fronte delle regole cautelari che si assumevano violate e quindi porre rimedio, ad un rischio ulteriore e diverso da quello governato dalla regola cautelare, rappresentato dalla utilizzazione della macchina in termini e secondo modalità non conformi all’impiego ordinario e cioè attraverso un suo sottoutilizzo, per la minore quantità del prodotto alimentare caricato, tale da consentire il contatto tra la mano dell’operatore e le lame in movimento. In sostanza i giudici di merito si erano limitati a ravvisare il rapporto di causalità materiale e a accertare l’inosservanza di una regola cautelare, ma avevano del tutto omesso di esplorare il profilo della causalità della colpa e cioè se l’evento realizzatosi costituisse la normale conseguenza, secondo principi di prevedibilità e di evitabilità, della regola cautelare asseritamente disattesa e tale profilo di criticità, già agitato nei motivi di appello, non aveva avuto alcuna risposta in quanto la Corte di appello si era limitata a riscontrare la pericolosità della macchina e la inosservanza degli obblighi organizzativi nella suddivisione del lavoro ovvero a impiegare formule stereotipate per sostenere che il responsabile della sicurezza aveva la possibilità di intervenire per colmare i difetti endemici del macchinario. Si assume che il giudice distrettuale aveva omesso di considerare che tutti gli elementi acquisiti deponevano per una soluzione differente rispetto a quella offerta in sentenza, in presenza di macchinario dotato di certificazione CE il quale, oltre tutto, risultava prodotto e commercializzato dall’azienda che lo aveva realizzato senza che fossero mai stati denunciati incidenti nell’utilizzo. Sotto questo profilo denuncia violazione di legge anche in relazione al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio in presenza di elementi incerti, non univoci e inadeguati ai fini dell’affermazione di responsabilità del prevenuto.
8.1.2 Quanto al secondo profilo di colpa specifica concernente le carenze organizzative, consistente nel non avere il responsabile della sicurezza segregato il luogo di lavoro in modo da escludere interferenze lavorative dei lavoratori di I. s.r.I., il ricorrente denuncia una erronea rappresentazione del panorama testimoniale tradottasi in una sottovalutazione, se non nel travisamento della prova in relazione a quanto riferito dai testi C., A., B. e Y., attraverso una sistematica opera di amputazione delle emergenze istruttorie in grado di disarticolare la coerenza del ragionamento probatorio. Deduce poi travisamento della prova nella parte in cui i giudici di merito avevano riconosciuto una prassi, tollerata dai vertici aziendali, consistita nel consentire anche al personale di I. s.r.l. l’accesso all’area ove si svolgevano le operazioni date in appalto, atteso che dalle emergenze istruttorie non era affatto risultata tale prassi, essendo emerso che solo in una occasione la dipendente infortunata aveva utilizzato la macchina per lo sminuzzamento di cipolle e del resto risultava del tutto ignoto se tale circostanza, elevata a prassi dai giudici di merito, era conosciuta dal datore di lavoro, che solo in questo caso sarebbe stato chiamato a rispondere per non averla eliminata.
8.2. Con un secondo motivo di ricorso deduce violazione dell’art.5 lett. a), 7 comma 2 e 66 D. Lgs. n.81/2008 con riferimento al riconoscimento dell’imputato R. quale figura apicale, come presupposto per il riconoscimento della responsabilità dell’ente I.; violazione degli art. 187, 192, 530, 533 e 546 cod. proc. pen. che ha comportato anche un difetto motivazionale e un travisamento della prova.
8.2.1 Secondo il ricorrente l’argomento sviluppato dalla Corte di Appello in base al quale il R. era titolare di autonomia gestionale e decisionale fondate su una procura speciale che lo aveva investito di poteri del tutto assimilabili a quelli del legale rappresentante dell’ente si scontra invero con le previsioni del documento (allegato per l’autosufficienza del ricorso), da cui risultava che il soggetto delegato era un dipendente della società, che la delega veniva meno in ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro, che i poteri oggetto di delega erano confinati in un ambito specifico e ausiliario (al settore della sicurezza sul luogo di lavoro), che il delegato era tenuto a riferire al mandante ed era assistito da un potere di spesa limitato, che la delega risultava conferita con procura speciale e non generale. Nel denunciare pertanto la incoerenza tra il valore probatorio assegnato dai giudici di merito al conferimento della procura al R. rispetto a quanto risultante dal contenuto del documento, e nel minimizzare il dato della sottoscrizione del DVR da parte del R. quale delegato alla sicurezza, rappresentava come la figura del RSPP, se da un lato poteva concorrere con quella datoriale nell’ambito della responsabilità penale per fatto illecito con riferimento all’inosservanza degli obblighi sugli stessi rispettivamente gravanti, non poteva essere confusa con quella apicale, titolare di effettivi poteri gestionali come prospettato dal giudice di appello, ai fini della configurazione della responsabilità dell’ente ai sensi dell’art.5 lett. a) D. Lgs. 231/2001 risultando pacifico, per costante giurisprudenza sul punto, che il delegato alla sicurezza nella protezione e prevenzione degli infortuni costituisce una figura ausiliaria e consultiva rispetto a quella gestionale, di talchè la sua azione avrebbe dovuto essere ricondotta alla ipotesi di cui all’art.5 lett. b) stesso testo, e cioè ai soggetti sottoposti al controllo e alla direzione di un soggetto apicale. Ciò avrebbe ricondotto la fattispecie nell’alveo dell’art. 7 comma 2 D. Lgs. 231/2001 essendo pacifico che l’ente, prima dell’infortunio aveva adottato ed attuato un adeguato sistema di gestione e controllo, con conseguente esclusione della responsabilità a carico dell’ente.
8.3 Con un terzo motivo di ricorso la società ricorrente deduce violazione dell’art. 5 comma 1, 25 septies e 66 D. Lgs. 81/2008; violazione degli art. 187, 192, 530, 533 e 546 cod. proc. pen. che ha comportato anche un difetto motivazionale nella parte in cui viene definito l’interesse o il vantaggio in capo all’ente I., quale ulteriore presupposto per la definizione della responsabilità del medesimo. In particolare rileva che nelle sentenze di merito la ricorrenza di un interesse e di un vantaggio per la ditta ricorrente risultava un accadimento meramente asserito, così come nell’imputazione, legato alla circostanza di fatto che il macchinario era stato impiegato nell’interesse della società, sebbene non a pieno regime, ma nessun argomento era stato esposto per individuare l’effettivo risparmio di spesa realizzato, per accertare che esso fosse stato determinato dalla sistematica inosservanza di regole cautelari; né era stato affermato che, alternativamente, l’interesse era stato integrato dalla deliberata strategia imprenditoriale di sottrarsi agli obblighi concernenti la sicurezza sul lavoro in un’ottica di massimizzazione della produzione, ovvero di contenimento dei costi, piuttosto che da una sottovalutazione dei rischi stessi. L’episodicità della fattispecie si poneva in contrasto con la tensione finalistica a ottenere un risparmio di spesa sui sistemi di prevenzione.
8.4 Con un quarto motivo di ricorso si deduce violazione di legge e vizio motivazionale in ordine al trattamento sanzionatorio e alla previsione della confisca dell’ipotizzato profitto, ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. 231/2001, interpretato come risparmio di spesa, nonché della misura del profitto confiscabile e difetto di motivazione con riferimento alla misura del trattamento sanzionatorio in quanto in contrasto con massima di esperienza.
Sotto un primo profilo la ricorrente contesta il ragionamento dei giudici di merito che hanno ravvisato il profitto nel risparmio di spesa consistito nei costi necessari a dotare il macchinario e il luogo di lavoro di dispositivi e di segnali idonei ad assicurare la sicurezza della macchina e la segregazione dell’area di lavoro da interferenze con dipendenti non abilitati.
Nel richiamare giurisprudenza del giudice di legittimità evidenzia che il profitto non può corrispondere al risparmio di spesa conseguito ma deve consistere in un concreto vantaggio economico di derivazione diretta dal fatto reato, dall’attuale contenuto patrimoniale e di segno positivo, così da non potere esaurirsi in un vantaggio futuro, in quanto eventuale o atteso ma non ancora concretizzatosi nel patrimonio. Assume che la definizione di profitto non può essere ricondotta a quella di vantaggio, definizione ben più ampia, che poi, nella specie, rappresenta una condizione per riconoscere la responsabilità dell’ente, mentre al profitto viene ricondotto un profilo sanzionatorio, e pertanto necessita di una stima puntuale.
Lamenta ancora come i giudici di merito siano pervenuti ad una dosimetria della sanzione in termini del tutto perplessi e presuntivi, sganciati da elementi di obiettiva valutazione. Contesta altresì la determinazione della misura della sanzione amministrativa per il fatto di non avere considerato l’intervenuto risarcimento del danno in favore della persona offesa, da ritenersi implicito in ragione della intervenuta revoca della costituzione.
1. Il ricorso deve essere accolto nei limiti di cui in motivazione. Il ricorso investe tutti i profili di imputazione all’ente della responsabilità amministrativa da reato, sia in relazione allo stesso presupposto che giustifica la responsabilità dell’ente e cioè la commissione di un reato presupposto; sia con riferimento alla ricorrenza dell'”interesse” e del “vantaggio” che delimitano ai sensi dell’art. 5 comma 1 D.Lgs. 8 Giugno 2001 n.231, dal punto di vista finalistico ed obiettivo, l’ambito della responsabilità dell’ente, costituendone condizioni di operatività; sia con riferimento alla posizione assunta dall’imputato del reato presupposto R. P. all’interno della compagine sociale, che si assume apicale, laddove il diverso ruolo ipotizzato dalla difesa (art. 5 cit. comma 1 lett.b) precluderebbe la responsabilità dell’ente ai sensi dell’art.7 commi 1 e 2 D. Lgs. 231/2001. Viene poi contestata la legittimità della confisca disposta dai giudici di merito ai sensi dell’art.19 stessa normativa e la misura del trattamento sanzionatorio.
2. Va ulteriormente premesso che nel procedimento in oggetto la veste di R. P., Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione all’interno della società I. s.p.a. e all’uopo delegato dall’organo amministrativo alla gestione della sicurezza sul luogo di lavoro, è duplice in quanto da un lato egli è stato giudicato quale imputato del reato di lesioni personali gravi ai danni della persona offesa, rimasta infortunata nell’utilizzo di un macchinario, in dotazione alla società I., ritenuto inadeguato e pericoloso e dall’altra egli viene in considerazione quale soggetto apicale della suddetta ditta, terminale gestionale ed operativo, in grado di riversare gli effetti del proprio operato, sostanzialmente omissivo, nella sfera giuridica dell’ente, secondo il meccanismo delineato dall’art. 5 comma 1 lett. a) D. Lgs. 231/2001. La precisazione si impone in quanto, risultando dato pacifico del giudizio che la società I., ancor prima dell’infortunio si era dotata di un modello organizzativo, di gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello occorso, non avrebbe potuto essere riconosciuta la responsabilità dell’ente in relazione ai reati commessi da persone diverse da quelle apicali, indicate dall’art. 5 comma 1 lett. b) testo citato, in quanto sarebbe venuta meno l’inosservanza agli obblighi di direzione e vigilanza, secondo quanto disposto dall’art.6 commi 1, 2 e 3 D. Lgs. 231/2001 in presenza di modello organizzativo adottato ed efficacemente attuato.
3. Il primo motivo di ricorso, che attiene alla commissione del reato presupposto (lesioni colpose gravi ai danni di una dipendente della società I. s.p.a.) è infondato e deve essere rigettato. A tale proposito va evidenziato che, nonostante il proscioglimento di R. P. dal reato ascritto per intervenuta estinzione del reato per sopravvenuta maturazione del termine prescrizionale il giudice, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b) D. Lgs. 231/2001, deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (sez.4, n.22468 del 18/04/2018, Eurocos s.n.c., Rv.273399), semprechè risultino integrati i presupposti di cui agli art. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto (n.38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda SCA, Rv.274320).
3.1 All’accertamento della responsabilità penale del R. il giudice di appello è pervenuto con un articolato motivazionale che non si presta alle censure articolate dal ricorrente con il primo motivo di doglianza. In particolare la Corte di Appello ha posto in rilievo l’inosservanza del R., quale Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione e quale soggetto delegato dal datore di lavoro al settore della sicurezza sul luogo di lavoro, agli obblighi di adeguamento – aggiornamento tecnico del macchinario ritenuto pericoloso dai tecnici dell’ASL e dall’ispettore del lavoro e di adeguata segregazione dell’area di lavoro da possibili interferenze da parte di dipendenti di I. non autorizzati ad accedervi.
3.2 Peraltro il ricorrente non contrasta la motivazione della sentenza impugnata in relazione al fatto che al R. siano state attribuite carenze tecniche ed organizzative che si risolvono nella inosservanza delle regole cautelari contestate, né lamenta l’individuazione nell’imputato del soggetto designato al governo del rischio che le regole cautelari codificate erano dirette a prevenire, ma si duole della mancata esplorazione della causalità della colpa, assumendo l’imprevedibilità della condotta della lavoratrice e l’impiego di modalità di lavorazione del tutto eccentriche rispetto agli usuali standard quantitativi di prodotto da utilizzare, che avrebbero consentito alla macchina di operare correttamente.
3.3 La censura è manifestamente infondata in quanto generica, argomentata in fatto e del tutto priva di confronto con gli argomenti delle sentenze di merito e in particolare di quella impugnata, che hanno in primo luogo evidenziato che la dipendente non solo non avrebbe dovuto trovarsi nell’area destinata al taglio di prodotti alimentari da impiegare nel confezionamento delle pizze, area appaltata ad un soggetto terzo, ma che il tema della delimitazione della suddetta area di lavoro da interferenze di dipendenti estranei a quello specifico ciclo produttivo era stato segnalato dai Rappresentanti dei lavoratori della Sicurezza in una specifica riunione e che pertanto le “omesse cautele tecniche ed organizzative, che hanno avuto una concreta incidenza eziologica nell’evento non solo erano attribuibili direttamente all’organizzazione aziendale della I. s.r.l., ma la situazione di pericolo era immediatamente percepibile da parte del R.”, il quale era l’interlocutore diretto delle maestranze sul tema della sicurezza, nonché il soggetto tenuto a individuare le carenze tecniche degli strumenti di lavoro e a esplorare i rischi di interferenza all’interno dei locali deputati alla lavorazione degli alimenti e a porvi rimedio nei limiti del proprio mandato.
3.4 Invero il giudizio sulla causalità della colpa presuppone un’attenta verifica, tramite un giudizio controfattuale ipotetico, della valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito ovvero, nel caso in specie, se il rispetto della regola cautelare, concernente la puntuale verifica delle condizioni di sicurezza sul luogo di intervento e la puntuale sorveglianza della corretta esecuzione della procedura di lavoro sarebbe stata in grado di scongiurare, con apprezzabile probabilità, l’evento dannoso (sez.4, n.7783 del 11/02/2016, P.C. in proc.Montaguti, Rv.266356; n. 34375 del 30/05/2017, Fumarulo, Rv.270823; n.9705 del 15/12/2021, Pazzoni Brunello, Rv.282855).
3.4.1 La Corte di appello non si è sottratta a tale compito e il giudizio espresso sul punto risulta congruamente motivato e privo di manifesta illogicità e contraddizione, tenuto conto della accertata prevedibilità dell’evento in capo al R. e della esigibilità da parte di questi di una opera di verifica e di controllo che, in relazione alla postazione di lavoro, doveva escludere il rischio di interferenze lavorative da parte di lavoratori, estranei al ciclo produttivo, non adeguatamente formati sulle tecniche di lavoro; laddove la lavoratrice non solo aveva avuto libero accesso all’area riservata agli addetti ma era stata espressamente incaricata da un preposto di eseguire una prova di taglio di un formaggio; da cui l’inferenza, del tutto corretta dal punto di vista logico, che ricorrevano prassi di promiscuità lavorativa tra differenti ambiti della realtà aziendale, tollerate dall’azienda, che il R. avrebbe dovuto recidere.
3.5 Quanto poi alle carenze tecniche del macchinario, riconosciute dal personale ASL e dall’ispettore del lavoro, che non interrompeva il movimento delle lame nonostante la disattivazione del ciclo, la Corte di Appello di Bologna ha evidenziato con argomenti del tutto logici la irrilevanza della circostanza che la macchina fosse dotata di marchio di conformità CE e che la produzione della stessa fosse proseguita nel corso degli anni con caratteristiche similari, in quanto gli obblighi di verifica, di manutenzione, di aggiornamento e di adeguamento dei mezzi di produzione da parte del datore di lavoro e per esso del responsabile delegato alla sicurezza, con autonomia gestionale e potere di spesa, avrebbero imposto di individuare e di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti destinati all’impiego della macchina e di adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori (sez.4, n.22249 del 13/03/2014, Enne, Rv.259229; n.1184 del 3/10/2018, Motta Pelli s.r.l., Rv.275114; n.41147 del 27/20/2014, Favaretto, Rv.282065).
3.7 Correttamente poi e con argomenti del tutto plausibili e privi di illogicità e contraddittorietà la Corte di Appello ha escluso che il R. avesse adeguatamente adempiuto ad un’adeguata opera di promozione e di informazione sulla necessità di tenere separate le aree di lavoro e in particolare quella in cui operavano le maestranze della ditta sub-appaltatrice addette alla preparazione degli ingredienti l evidenziando che l’evento lesivo non era la conseguenza di una solitaria, estemporanea e imprevedibile iniziativa della persona offesa, sfuggita al controllo degli altri addetti, ma frutto di una preordinata fase lavorativa, in quanto la Y. si era portata nell’area lavorazione formaggi, che le avrebbe dovuto essere interdetta, per eseguire una prova di taglio unitamente ad un preposto che l’aveva all’uopo incaricata. Le stesse modalità del fatto, unitamente alla circostanza che la persona offesa aveva fatto accesso alla cucina interdetta in almeno un’altra circostanza, inducevano i giudici di merito a ritenere che, contrariamente a quanto riferito da alcuni testimoni, non vi era stata alcuna opera di informazione da parte del R. sulla necessità di evitare interferenze lavorative nell’area dedicata alla preparazione degli alimenti, o che comunque la stessa, priva di adeguata pubblicità, era risultata del tutto inidonea a fronte di prassi elusive talmente eclatanti e plateali da non potere essere ignorate dal delegato alla sicurezza. La motivazione così articolata risulta priva di salti logici e coerente con le emergenze processuali e non si presta ad essere censurata nel presente giudizio di legittimità neppure con riferimento al travisamento della prova denunciato dalla ricorrente nell’ultima parte del primo motivo di ricorso, trattandosi di argomento privo del carattere di decisività, tenuto conto degli argomenti utilizzati dalla corte territoriale per riconoscere che l’accesso nei locali interdetti di maestranze non abilitate di I. s.r.l. fosse tutt’altro che occasionale ed estemporaneo e la duttilità lavorativa fosse il risultato di una prassi lavorativa tollerata, se non incentivata dal datore di lavoro, e non contrastata dal delegato alla sicurezza.
3.9 Quanto ai profili causali, pure agitati dalla parte ricorrente nel denunciare la condotta abnorme e imprevedibile della persona offesa, depone per la esclusione della interruzione del rapporto di causalità, in costanza della imprudente condotta del lavoratore, la giurisprudenza che esclude la responsabilità del lavoratore nella causazione dell’infortunio quando, come nella specie, il sistema di sicurezza apprestato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità (sez.4, 17/01/2017, Meda, Rv.269255; 10/10/2013, Rovaldi, Rv. 259313; n.22044 del 2/05/2012, Goracci non massimata; 7/02/2012, Pugliese, Rv.252373; n.21511 del 15/04/2010, Di Vita, n.m.). Le disposizioni di sicurezza perseguono infatti il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l’area di rischio da gestire comprende il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro impedire l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e, come tali, latrici di possibili rischi per la sicurezza e la incolumità dei lavoratori (sez.4, 13/11/2011 Galante, n.m.; sez.4, n.22813 del 21/05/2015, Palazzolo, Rv.269437). Invero, quanto alla dedotta condotta imprudente o incauta del lavoratore, è stato evidenziato dal S.C. che la colpa del lavoratore eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché l’esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l’evento-morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento quando, per la sua stranezza ed imprevedibilità, non sia neppure collegato al segmento di lavorazione impegnato; in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (vedi sez.4, 23292 del 28/04/2011, Millo, Rv.250709; n.16397 del 5/03/2015, Guida, Rv.263386), ipotesi nella specie neppure prospettata nel motivo di ricorso, in quanto la stessa era stata sostanzialmente autorizzata, se non incaricata di procedere alla lavorazione da parte di un preposto che si era poi allontanato pure nella consapevolezza che la Y., priva di esperienza e formazione, non avrebbe neppure dovuto accedere all’area riservata.
Il motivo deve pertanto essere disatteso.
4. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso, con il quale si assume l’omessa considerazione, nell’accertamento dell’interesse o del vantaggio per l’ente, che la inosservanza di regole cautelari avrebbe potuto dipendere dalla mera sottovalutazione dei rischi e non da una scelta aziendale di trascurare cautele doverose. Assume il ricorrente che da un lato la motivazione della sentenza impugnata ha del tutto trascurato di valutare la ricorrenza dell’interesse per la società di contravvenire le regole cautelari sotto la specie di una deliberata inosservanza al fine di conseguirne un ritorno patrimoniale consistito nel contenimento dei costi o nel risparmio di spesa mentre, in relazione al vantaggio, contrasta gli argomenti sviluppati dai giudici di merito assumendo che gli stessi risultavano individuati ex post sulla base dell’evento realizzatosi ma che in concreto nessun effettivo vantaggio si era realizzato, stante l’irrilevanza in termini economici degli effetti di tale inosservanza.
La censura non coglie nel segno atteso che il giudice distrettuale ha fornito adeguato riscontro alle censure concernenti la ricorrenza dell’interesse e del vantaggio dell’ente al mancato rispetto di cautele doverose imposte dalla disciplina prevenzionistica, evidenziando da un lato che non si era in presenza di inosservanze occasionali o dettate da una sottovalutazione dei rischi connessi al mancato rispetto di disciplina prevenzionistica ma afferenti a snodi fondamentali della gestione della sicurezza, inerendo alla verifica della sicurezza degli strumenti di lavoro ed alla mancata corretta segregazione dell’area luogo di lavoro da interferenze da parte lavoratori privi di idonea abilitazione ad operare in tale contesto, e dall’altro individuando una duplice componente del vantaggio economico conseguito in termini di risparmio di spesa (costi da sostenere per mettere in sicurezza il macchinario sminuzzatore, costi per la segregazione dell’area di lavoro), nella prospettiva di una maggiore produttività o duttilità lavorativa, con riduzione dei tempi di lavoro. Sotto questo aspetto pertanto la motivazione delle decisioni dei giudici di merito, che risultano saldarsi in un filo logico unitario, appaiono del tutto conformi alla giurisprudenza di legittimità, peraltro richiamata dalla stessa parte ricorrente secondo la quale la responsabilità dell’ente è configurabile qualora l’autore del reato abbia violato sistematicamente le norme infortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l’ente sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso (sez.4, n.38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda s.c.a., Rv.274320; n.2544 del 17/12/2015, Gastoldi, Rv.28065). Né nella specie appare corretto invocare la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, quando l’inosservanza delle regole cautelari sia occasionale e il vantaggio per l’ente sia esiguo, la prova della prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto deve essere fornita in termini rigorosi (sez.4, n.22256 del 3/03/2021, Canzonetti, Rv.281276-02), laddove nella specie i giudici di merito hanno esplicitato con motivazione congrua e priva di evidenti contraddittorietà ed illogicità che il risparmio di spesa fu tutt’altro che trascurabile soprattutto in relazione ai costi di segregazione dell’area di lavoro e degli accorgimenti tecnici che sarebbero valsi a rendere il complesso macchinario privo di pericoli in ragione della prosecuzione del movimento delle lame (mediante un braccetto distanziatore).
5. Deve invece ritenersi fondato il secondo motivo di ricorso con il quale viene dedotta violazione di legge e difetto di motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova in ordine al riconoscimento in capo a R.P., R.S.P.P. di I. e soggetto delegato alla gestione della sicurezza sul lavoro, di una posizione apicale all’interno della compagine societario.
5.1 La sentenza impugnata ha ritenuto che l’imputato R., pure a fronte degli argomenti sviluppati nei motivi di impugnazione da parte della società I., non rivestiva soltanto la qualifica di dipendente della società sottoposto alla direzione e alla vigilanza degli organi gestionali e rappresentativi di questa, ma, in virtù del ruolo e dei poteri conferiti, era dotato di autonomia gestionale e di poteri rappresentativi dell’ente quantomeno nel settore della sicurezza sul luogo di lavoro in relazione al quale la delega era stata conferita.
5.2 Prevede l’art.5 comma 1 lett. a) D. Lgs. 231/2001 che la società è responsabile per i reati commessi “da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano anche di fatto, la gestione o il controllo dello stesso”.
Argomenta il giudice di appello che “sebbene normalmente il R.S.P.P. sia un mero ausiliario del datore di lavoro, nel caso in specie il R. era stato investito, mediante specifica procura speciale (v.art. 67, all. n.7) di compiere scelte decisionali in piena autonomia in materia di sicurezza, esclusa ogni ingerenza dell’organo amministrativo dell’azienda e con diretta disponibilità di mezzi necessari per l’adempimento dei compiti stessi: dunque, il R. aveva una vera e propria autonomia gestionale e di spesa (seppure nel limite di euro 25.000) che consente di equiparare la figura del R. a quella di soggetto in posizione apicale, oltre ad avere veri e propri poteri di rappresentanza, come si evince dal fatto che aveva firmato il Documento di Valutazione dei Rischi (cfr. aff.145, al1.8), in qualità di datore di lavoro oltre che di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione”; per tale ragione “sussiste il rapporto di immedesimazione organica, stante la riconducibilità del R. alle figure indicate dall’art. 5 del D. Lgs. 231/2001 comma 1 lett. a) a causa delle funzioni concretamente svolte da quest’ultimo in virtù dell’apposita delega di funzioni” (Corte di Appello di Bologna a pag.17).
5.3 In sostanza il giudice di appello, ribadendo quanto riconosciuto nella motivazione della sentenza di primo grado, ha ritenuto che il conferimento di una ampia delega in via esclusiva nel settore della sicurezza sul lavoro, con autonomia gestionale in materia di sicurezza sul luogo di lavoro e potere di spesa circoscritto all’importo di euro 25.000 sia sufficiente a comprendere il delegato nel novero delle figure apicali indicate dalla norma, in quanto aveva posto il delegato in una posizione di sovraordinazione assimilabile a quelle ivi specificamente contemplate (amministrazione, rappresentanza e direzione dell’ente ovvero di una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale).
6. Il giudizio è figlio di una errata interpretazione dell’art. 5 comma 1 lett. a) D. Lgs. 231/2001.
6.1 In primo luogo va rilevato che, come evidenziato da S.U. n.38343 del 24/04/2014 Espenhahn, Rv.26112-01, il sistema normativo introdotto dal D. Lgs. 231/2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità, compatibile con i principi costituzionale di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza, fondato sul principio di legalità in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità dell’ente e delle sanzioni applicabili (art. 2) e con specifica individuazione dei soggetti in grado di determinare la responsabilità dell’ente in virtù dei reati da essi commessi (art. 5). Il principio di stretta legalità richiamato impone una verifica puntuale dei tratti della fattispecie produttiva di responsabilità che, nella specie, ha nella relazione tra gli autori dei reati e l’ente un presupposto indefettibile dell’imputazione all’ente degli effetti del loro operato.
6.2 II decreto 231/01 distingue i soggetti apicali da coloro che a questi sono sottoposti (art. 5). Rammentato che la responsabilità dell’ente trova giustificazione in una colpa di organizzazione, ovvero in un deficit dell’organizzazione che si pone quale causa del reato, l’operato dei soggetti apicali è ritenuto ex se espressivo di una colpa di organizzazione. Pertanto, l’adozione e la efficace attuazione di un idoneo modello di organizzazione e gestione, unite alla elusione fraudolenta del medesimo (ma sono note le difficoltà di dare un ruolo a tale dato nel caso di reato colposo di evento) ha la funzione di dimostrare che, nonostante la compenetrazione tra operato dell’apicale ed ente, il reato commesso dal primo non è attribuibile al secondo. Per i soggetti sottoposti all’altrui direzione e controllo, il legislatore ha ritenuto non operante un tale meccanismo di trasposizione e pertanto ha individuato un diverso fattore di riconduzione del reato all’ente, rappresentato dalla violazione degli obblighi di direzione e di controllo facenti capo alla figura apicale. Tale violazione ha la funzione di assicurare che il reato del sottoposto metta radici nella colpa di organizzazione dell’ente; tanto che ove sia stato adottato un idoneo modello di organizzazione e gestione e lo stesso sia stato anche efficacemente attuato, la violazione degli obblighi di controllo e di gestione perde la sua valenza indiziaria e degrada a fatto dell’apicale non espressivo della colpa di organizzazione dell’ente.
6.3 Vi è quindi una importante implicazione nella qualità della persona fisica autrice del reato: ove si tratti di uno dei soggetti indicati dalla lettera a) dell’art. 5 del decreto 231, l’adozione e la efficace attuazione di idoneo MOG non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell’ente, ancora occorrendo che esso sia stato fraudolentemente eluso. Nel caso di soggetto sottoposto, secondo la nozione ricavabile dall’art. 5 lett. b) del decreto, l’adozione e l’efficace attuazione di idoneo MOG è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell’ente, anche quando il reato sia stato reso possibile dalla violazione degli obblighi di direzione e controllo gravanti sui soggetti apicali.
6.4 In tale distinzione risulta evidente la scelta del legislatore di porre su un diverso piano le due categorie di soggetti in grado di impegnare la responsabilità amministrativa dell’ente, laddove la prima si sostanzia nell’ente stesso, la seconda è in grado di impegnare l’ente soltanto quando concorra un difetto di gestione e di controllo ascrivibile all’ente nelle sue diramazioni apicali e manchi il modello organizzativo suddetto. In presenza del principio di autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato presupposto, non risulta necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, essendo sufficiente un mero accertamento incidentale (sez.4, n.38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda, Rv.274320-03), ma è indispensabile una puntuale individuazione della categoria, tra quelle indicate, agli art. 6 e 7 D. Lgs. 231/2001, a cui appartenga l’autore del fatto (sez.6, n.28299 del 10/11/2015, Bonomelli, Rv.267048-01).
6.5 Ai fini di tale verifica deve essere attentamente esaminato il dato letterale della disposizione (art. 5, comma 1 lett. a), la quale non è rivolta ad individuare le posizioni apicali del settore lavoristico (datore di lavoro, dirigente, preposto), bensì a indicare, in termini generali e omnicomprensivi la massima espressione di rappresentanza e di gestione dell’ente-persona giuridica la cui responsabilità è determinata dalla commissione dei reati presupposto.
7. In primo luogo il principio di legalità che informa anche il sistema di accertamento della responsabilità degli enti impone al giudice di attenersi alla precisa dizione della norma senza indulgere ad interpretazioni analogiche o estensive e quando la norma non sia chiara di attenersi alla interpretazione giurisprudenziale vigente, e ad evitare interpretazioni in malam partem.
7.1 Se la nozione di rappresentanza evoca, sotto il profilo sostanziale e processuale, un insieme di poteri in forza dei quali l’organo esprime all’esterno la volontà dell’ente in relazione agli atti che rientrano nell’esercizio delle sue funzioni ed essa costituisce, indipendentemente dal conferimento di specifiche procure (di cui oltre), una conseguenza del ruolo dallo stesso rivestito all’interno della compagine, in quanto strumentale al perseguimento dei fini dell’ente, le nozioni di amministrazione e di direzione dell’ente o di una singola unità organizzativa richiamano, seppure sotto il profilo funzionale, la struttura stessa dell’ente evocando la massima espressione dei poteri di indirizzo, di elaborazione delle scelte strategiche, della organizzazione aziendale, della assunzione delle decisioni e dei deliberati attraverso i quali l’ente persegue le proprie finalità.
7.2 La direzione implica, di regola, un atto di prepositura con la quale il dirigente viene indirizzato all’intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa e viene investito di attribuzioni che, per ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, pure nel rispetto delle direttive programmatiche dell’ente, il potere di imprimere un indirizzo o un orientamento al governo complessivo dell’azienda assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello.
7.3 Le stesse decisioni di merito escludono che una delle funzioni apicali sopra indicate possa essere riconosciuta al R. in ragione dalle mansioni di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione che gli erano state espressamente attribuite nell’organigramma aziendale. Come è noto, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione assume una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro nella individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione di formazione dei dipendenti (sez.4, n.50605 del 5/04/2013, Porcu, Rv. 258125; n.27420 del 20/05/2008 Verderosa, Rv.240886). Per tale motivo, la sua nomina non vale a sollevare il datore di lavoro e i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (sez.4, n.24958 del 26/04/2017, Rescio, Rv. 270286 -01). Orbene, se al RSPP viene riconosciuta una funzione di ausilio al datore di lavoro, appare evidente che una prestazione di collaborazione resa in ragione del rapporto di ausiliarietà e di subordinazione al datore di lavoro, non può essere ricondotta ad alcuna delle figure comprese nella categoria delle persone dotate di veste apicale, come delineata dall’art. 5 comma 1 lett. a) D. Lgs.vo 231/2001.
8. Invero l’attenzione dei giudici di merito si è appuntata anche sui poteri attribuiti al R. sulla base di una delega prepositurale da parte del datore di lavoro, da cui è stata tratta l’inferenza che il R. abbia accentrato nel suo agire funzioni gestionali e rappresentative nel settore della sicurezza del lavoro; in sostanza hanno riconosciuto che egli fosse un datore di lavoro, secondo la definizione che ne dà l’art. 2, lett. b) d. lgs. 81/2008, laddove menziona “il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” Sebbene con differenti argomenti e sfumature il giudice di primo grado e la Corte di Appello di Bologna, nell’interpretare il contenuto delle delega di funzioni assegnate al R. mediante procura speciale, hanno rimarcato l’autonomia gestionale (piena autonomia di scelta decisionale) per l’assolvimento dei compiti assegnati, l’esclusività della delega, il riconoscimento di un potere di spesa (così come riterrà necessario) nei limiti previsti (euro 25.000) e, ai fini della rappresentanza, il fatto che il R. avesse sottoscritto il DVR anche quale datore di lavoro. Da tali elementi hanno ritenuto che il trasferimento di poteri così ampi, assistiti da autonomia operativa e gestionale la mancanza di interferenze (esclusa ogni ingerenza dell’organo amministrativo dell’azienda) avesse rideterminato il conferimento di una posizione verticistica, assimilabile a quella di un dirigente che, pure sottoposto al potere di vigilanza e condizionato dal potere di revoca della investitura da parte dell’amministrazione é comunque posto in una posizione sovraordinata e indipendente nell’ambito di uno specifico settore al pari di un direttore tecnico o di stabilimento.
8.1 Una siffatta interpretazione stride peraltro con il dettato dell’art. 5 comma 1 lett. a) D. Lgs. 231/2001 e non appare neppure rispettosa del complessivo articolato contenuto nella procura con la quale è stata realizzata la delega di poteri, come riportata per stralci nelle sentenze di merito e come allegata nella sua interezza, per l’autosufficienza, dalla difesa della parte ricorrente.
8.2 La norma fa espresso richiamo alla persona che assume funzioni di “direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale”, così da porsi innanzi tutto la questione, non esplorata compiutamente dai giudici di merito, della ricorrenza di un trasferimento di una posizione apicale in relazione al complesso aziendale o ad una singola ripartizione organizzativa dello stesso, mediante una delega di funzioni che comprenda soltanto un ambito circoscritto di poteri in un settore determinato del complesso aziendale come quello della sicurezza sul luogo di lavoro. A tale proposito la legge ammette che gli obblighi prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro possano essere trasferiti ad un delegato (salvo quelli espressamente indicati come non delegabili dall’art. 17 d. lgs. 81/2008), ma ciò determina l’attribuzione di un ben definito novero di competenze e non l’intera gestione aziendale (cfr. sez. U, n.38343 del 24/4/2014, PG e PC – Espnenhahn, Rv. 261108-01), né la preposizione, in guisa di datore di lavoro, ad una unità produttiva.
8.3 A tal ultimo proposito è opportuno rimarcare che non può riconoscersi rilievo decisivo al conferimento mediante atto di delega di specifiche attribuzioni per lo svolgimento di una funzione determinata, anche se nevralgica dell’azienda (come quella prevenzionistica, attinente alla prevenzione e protezione dei lavoratori dai rischi implicati dal processo produttivo e al rispetto delle misure di sicurezza adottate sul luogo di lavoro), per fare assurgere il delegato a soggetto in posizione di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità produttiva, secondo la previsione del citato art. 5 lett. a). Ciò in quanto il delegato rimane sottoposto al più ampio potere del delegante, che viene esercitato anche sotto forma di vigilanza; il delegato inoltre è tenuto a rapportarsi e a riferire al delegante (nella specie il datore di lavoro amministratore della società) ai fini dell’adozione di quelle misure di prevenzione o di protezione che sfuggano al suo potere di gestione o di spesa.
A tale proposito la Suprema Corte di Cassazione a S.U. ha avuto modo di rimarcare che “è diffusa l’opinione (e la si rinviene spesso negli atti giudiziari) che i poteri e le responsabilità del dirigente e del preposto nascano necessariamente da una delega. Al contrario, le figure dei garanti hanno una originaria sfera di responsabilità che non ha bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto. La delega è invece qualcosa di diverso: essa, nei limiti in cui è consentita dalla legge, opera la traslazione dal delegante al delegato di poteri e responsabilità che sono proprie del delegante medesimo. Questi, per così dire, si libera di poteri e responsabilità che vengono assunti a titolo derivativo dal delegato. La delega, quindi, determina la riscrittura della mappa dei poteri e delle responsabilità. Residua, in ogni caso, tra l’altro, come l’art. 16 del T.U. ha chiarito, un obbligo di vigilanza “alta” a carico del delegante (S.U. n.38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione). E' sempre il datore di lavoro poi ad assumere la responsabilità in ordine alla valutazione dei rischi e all’adozione del Documento di Valutazione dei Rischi (sez.4, n.27295 del 2/12/2016, Furlan, Rv.270355 laddove la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento viene espressamente riconosciuta come attività non delegabile da parte del datore di lavoro.
9. Va poi evidenziato che il cumulare i ruoli di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e di ‘delegato alla sicurezza’ non fa per ciò solo assumere il ruolo di chi gestisce o dirige l’ente o una ripartizione rilevante di essa come indicata dalla norma; con la conseguenza che i giudici di merito, nella verifica delle condizioni per l’affermazione della responsabilità dell’ente I., avrebbero dovuto accertare se al R. fosse stata riconosciuto in origine, ovvero attribuito con delega, un complessivo assetto di poteri tali da definirne la veste apicale nel senso delineato dall’art. 5 lett. a) cit, non limitandosi a considerare se all’esercizio delle specifiche funzioni delegate fossero stati assicurati i correlati poteri, di per sé implicanti una certa misura di indipendenza gestionale, di organizzazione e controllo, e di autonomia di spesa, necessaria ma anche limitata allo svolgimento delle funzioni delegate; si tratta di poteri che costituiscono nulla più che le premesse dell’esercizio della delega, ai sensi dell’art. 16 comma 1 lett. c) D. Lgs. 81/2008, e dell’esonero di responsabilità del datore di lavoro, ma non indici della ricorrenza di una posizione apicale in capo al delegato.
10. Il principale vizio della sentenza impugnata è pertanto quello di avere operato una sorta di equiparazione tra “il potere di compiere scelte decisionali in piena autonomia in materia di sicurezza” ed il riconoscimento di una veste apicale, secondo la previsione dell’art. 5 lett. a) d. lgs. 231/01; laddove la piena autonomia di decisione costituisce il presupposto di operatività della delega di funzioni in materia di prevenzione sul lavoro, ma non implica il riconoscimento di poteri di amministrazione, di gestione e di rappresentanza che coinvolgono l’ente nel suo complesso ovvero una articolazione organizzativa dello stesso.
Né può affermarsi fondatamente che tale delega determini nel delegato una relazione di immedesimazione organica, sì da riferire al R. le funzioni gestorie richieste dal citato art. 5 lett. a), come ritenuto dal giudice di appello quale ineluttabile conseguenza della procura.
11. Sul punto pertanto coglie nel senso il secondo motivo di ricorso della difesa di I. il quale nel mettere in rilievo la illogicità di una tale equiparazione, ha al contempo segnalato una serie di riferimenti, pure contenuti nella delega, che avrebbero dovuto essere considerati ai fini di una compiuta ricostruzione del panorama probatorio nell’attribuzione della veste apicale in capo al R., quali la ricorrenza di una procura speciale, limitata a un circoscritto ambito operativo, e non generale, l’obbligo in capo al delegato di riferire al proprio mandante e il riconoscimento di un limite di spesa (euro 5.000) di cui andava valutata la compatibilità con l’assolvimento di compiti che si assume possiedano rilevanza gestionale o direttiva almeno di una unità produttiva. Certamente era onere del giudice di appello provvedere a saggiare la portata indiziaria degli elementi sopra indicati e confrontarli con gli ulteriori indici considerati, e non già limitarsi a fondare il proprio ragionamento probatorio sull’unico suggestivo, ma non contestualizzato, argomento dell’autonomia decisionale in materia di sicurezza conferita al delegato, elemento certamente idoneo a determinare tutt’al più il trasferimento della funzione prevenzionistica, nel rispetto di quanto indicato dall’art.16 D. Lgs. 81/2008, ma da solo insufficiente a fare emergere i caratteri della sovraordinazione apicale.
12. Manifestamente contraddittorio, se non frutto di travisamento è poi l’argomento secondo il quale la sottoscrizione del DVR da parte del RSPP delegato alla sicurezza, è indice di esercizio di poteri rappresentativi, laddove, come sopra evidenziato, la valutazione dei rischi collegati alla prestazione di lavoro è compito non delegabile del datore di lavoro. La Corte di appello avrebbe dovuto dimostrare preliminarmente che il R. era stato costituito datore di lavoro; il che non è stato.
12.1 Va peraltro evidenziato che il documento di valutazione dei rischi è stato sottoscritto dal R. nella sua qualità di RSPP e quindi quale collaboratore ausiliario del datore di lavoro; sicché è manifestamente illogico fare perno su tale circostanza per dedurne, come assume la sentenza impugnata, che il R. abbia esercitato, quantomeno di fatto, un potere proprio dell’organo decisionale.
13. In conclusione nel pronunciare l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al punto concernente la individuazione nel R. di una delle figure apicali contemplate dall’art.5 comma 1 lett.a) D.Lgs. n.231/2001, deve essere affermato che la disciplina in esame ha portata generale e si riferisce a tutti i soggetti giuridici, con o senza personalità giuridica indicati dall’art. 1 del suddetto testo normativo; che ai fini della individuazione delle persone dotate di funzioni di rappresentanza, di gestione e di direzione dell’ente e di una unità organizzativa provvista di autonomia finanziaria, non può prescindersi dai criteri identificativi fissati dagli istituti dell’ordinamento giuridico generale e non quelli di un particolare settore come quello lavoristico, ivi compresi gli strumenti deputati alla costituzione ovvero al trasferimento di funzioni da soggetti verticistici, quali la procura.
13.1 A tale fine non può costituire elemento sintomatico della costituzione di una posizione verticistica ovvero direzionale lo strumento delineato dall’art.16 D.Lsv. 81/2008 che attiene al diverso ambito della delega di funzioni nel settore della prevenzione dei rischi in ambito lavorativo, che non determina il trasferimento della funzione datoriale, nella sua accezione gestionale e di indirizzo, né di regola, la costituzione di una posizione verticistica, ma risulta strutturato per sollevare il datore di lavoro da singoli incombenti in materia di sicurezza nel limitato ambito delle funzioni trasferite.
14. Infondato risulta anche il quarto motivo di ricorso. L’apprezzabile sforzo argomentativo della difesa di I., volto a contrastare la definizione fornita dalla Corte di Appello di Bologna di profitto del reato, derivante dai delitti colposi di evento quale quello contestato al R., e di isolare le nozioni di vantaggio per l’ente, quale presupposto oggettivo della responsabilità amministrativa e quella di profitto, ponendo in rilievo il carattere potenziale, eventuale, astratto ed illiquido del primo, mentre il profitto ai fini della confisca, avendo natura sanzionatoria, dovrebbe risultare certo, quantificabile, concreto e corrispondente ad un effettivo incremento patrimoniale, si scontra con la ampia e articolata disamina della materia contenuta nella sentenza a Sezioni Unite 38343 del 34/04/2014, Espenhahn, in relazione al profitto confiscabile nei reati colposi di evento contenuta da pag.207 a 210 della motivazione e Massimata con Rv.261117. Dopo avere passato in rassegna la giurisprudenza di legittimità a S.U. che si era occupata della confisca sanzionatoria in ipotesi di responsabilità amministrativa degli enti e, in modo particolarmente diffuso & Sezioni Unite n.26654 del 2/07/2008, Fisia Impianti s.p.a. la quale ha identificato il profitto quale vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato, ha inteso approfondire la questione della misura e della portata del vantaggio economico con particolare riferimento al delitto colposo da cui derivi un evento dannoso. Sul punto ha affermato che “il profitto del reato a cui fa riferimento il primo comma dell’art. 240 cod. pen. va identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al “prodotto” e al “prezzo” del reato. L’andamento estensivo della giurisprudenza è d’altra parte in linea con la strategia internazionale, che in maniera sempre più esponenziale, affida alla confisca dei “proventi del reato”, intesi in senso sempre più ampio e onnicomprensivo, il ruolo di contrasto alla criminalità economica e a quella organizzata e, a tal fine, elabora strumenti funzionali alla promozione dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia. Tale generale ordine di idee deve essere ripreso ed ampliato. ‘E da rimarcare che l’idea di profitto non può non essere conformata in guisa che sia coerente con le caratteristiche della fattispecie cui si riferisce. Si è visto che, per ciò che riguarda i reati colposi di evento, l’imputazione oggettiva dell’illecito all’ente si fonda sull’interesse o vantaggio riferito alla condotta e non all’evento. Orbene, con riguardo ad una condotta che reca la violazione di una disciplina prevenzionistica, posta in essere per corrispondere ad istanze aziendali, l’idea di profitto si collega con naturalezza ad una situazione in cui l’ente trae da tale violazione un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto. Qui si concreta il vantaggio che costituisce il nucleo essenziale dell’idea normativa di profitto. Dunque non erra per nulla la Corte di merito quando individua il profitto, come minimo, nel risparmio di spesa inerente all’impianto di spegnimento; oltre che nella prosecuzione dell’attività funzionale alla strategia aziendale ma non conforme ai canoni di sicurezza”.
14.1 Deve pertanto ritenersi legittima la soluzione adottata dai giudici di merito relativamente alla disposta confisca, in ragione degli argomenti e del contenuto della sentenza a sezioni unite richiamata, che ha avuto proprio lo scopo di delineare, con riferimento alla responsabilità amministrativa degli enti, l’ambito interpretativo della nozione di profitto del reato rispetto all’istituto della confisca di cui agli art. 9 comma 1 lett.c) e 19 comma 1 D.Lgs. n.231/2001 con specifico riferimento ai delitti colposi di danno, in cui l’omissione delle cautele prevenzionistiche determina, di regola, un vantaggio economico per l’autore del reato e, a cascata, a favore dell’ente, che si manifesta in un “risparmio di spesa”, che i giudici di merito hanno determinato sulla base di dati tutt’altro che congetturali, ma parametrati ai costi di adeguamento del macchinario e di segnalazione e di pubblicità e, presuntivamente, ai vantaggi correlati alla duttilità dell’organizzazione aziendale nell’accesso ai macchinari.
14.3 Infondata è altresì la censura concernente la misura del trattamento sanzionatorio, che si assume dovere essere ulteriormente ridotto ai sensi dell’art.12 comma 3 D.Lgs. n.231/2001 avendo il giudice di appello logicamente evidenziato come non sia risultata agli atti del giudizio la prova positiva dell’intervenuto integrale risarcimento del danno alla persona offesa prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, dimostrazione che non poteva essere fornita mediante la allegazione della intervenuta revoca della costituzione della parte civile.
15. In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata nei limiti di cui in motivazione con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna.
Descrizione | Livello | Dimensione | Downloads | |
---|---|---|---|---|
Penale Sent. Sez. 4 Num. 34943 Anno 2022.pdf |
1359 kB | 10 |
Tags: Sicurezza lavoro Cassazione