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Cassazione Civile Sez. L n. 24681 | 02 dicembre 2016

ID 16605 | | Visite: 1572 | Cassazione Sicurezza lavoroPermalink: https://www.certifico.com/id/16605

Sentenze cassazione civile

Cassazione civile Sez. Lavoro del 02 dicembre 2016 n. 24681

Nel giudizio in cui un dipendente, licenziato per avere ripetutamente omesso di giustificare l’assenza a visite di controllo domiciliare della malattia, aveva sostenuto che la tutela della salute dovesse prevalere sull’obbligo di giustificare l’inosservanza delle fasce orarie di reperibilità, la Corte ricorda la propria consolidata giurisprudenza al riguardo, secondo la quale l’effettività della malattia è irrilevante rispetto alla necessità di controllo della stessa, in funzione della quale è stabilito l’obbligo di reperibilità. Con l’occasione, la Corte richiama altresì la propria elaborazione giurisprudenziale in ordine all’individuazione delle circostanze che possono giustificare il fatto di non aver adempiuto all’obbligo di reperibilità.

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 1266/2013, depositata il 13/12/2013, la Corte di appello di Catania rigettava il gravame di G.M. e confermava la sentenza del Tribunale di Ragusa, che ne aveva respinto il ricorso diretto alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento con preavviso intimatogli dalla S.p.A. P.I. per assenza al controllo domiciliare di malattia, non preventivamente comunicata al datore di lavoro, del giorno 29/2/2008.

La Corte osservava che il lavoratore era stato rinvenuto ripetutamente assente alla visita domiciliare di controllo della malattia; che nessuna giustificazione, neppure ex post, aveva fornito per l’ultima assenza, che aveva portato al licenziamento, e che, per le precedenti quattro, non ne aveva fornito di adeguate; che si doveva tenere conto del particolare ruolo ricoperto dal ricorrente, caratterizzato, quale direttore di ufficio postale, dall’esercizio di compiti di coordinamento e controllo di altri dipendenti.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il M. con due motivi; la società ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 5, co. 14, del decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella I. 11 novembre 1983, n. 638, censura la sentenza impugnata per non avere la Corte, capovolgendo la gerarchia di valori stabilita dalla norma, ritenuto prevalenti le esigenze di tutela della salute del lavoratore rispetto a quelle poste a giustificazione dell’obbligo di comunicare preventivamente al datore di lavoro la necessità di assentarsi durante le fasce orarie di reperibilità.

Con il secondo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione di norme del CCNL dell’11/7/2007 per il personale non dirigente di P.I. S.p.A. (art. 43, co. 9; art. 55, commi 4 e 5), il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte applicato le richiamate disposizioni collettive in modo non coerente alla necessità di un contemperamento tra l’esigenza di punire una condotta disciplinarmente rilevante e la indispensabile valutazione dei fattori, nelle medesime espressamente indicati, volti alla commisurazione della gravità della condotta e della gradazione/proporzionalità della sanzione applicabile.

Il primo motivo è infondato.

Nel fissare i limiti dell’obbligo di reperibilità del lavoratore alle visite di controllo questa Corte ha infatti precisato, con orientamento risalente e consolidato, che, mediante la previsione di cui all’art. 5 I. n. 638/1983, si è imposto al lavoratore un comportamento (e cioè la reperibilità nel domicilio durante prestabilite ore della giornata) che è, ad un tempo, un onere all’interno del rapporto assicurativo ed un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro, ma il cui contenuto resta, in ogni caso, la “reperibilità” in sé; con la conseguenza che l’irrogazione della sanzione può essere evitata soltanto con la prova, il cui onere grava sul lavoratore, di un ragionevole impedimento all’osservanza del comportamento dovuto e non anche con quella della effettività della malattia, la quale resta irrilevante rispetto allo scopo, che la legge ha inteso concretamente assicurare, dell’assolvimento tempestivo ed efficace dei controlli della stessa da parte delle strutture pubbliche competenti, siano esse attivate dall’ente di previdenza ovvero dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 legge 20 maggio 1970 n. 300.

In particolare, a dimostrazione che il giudizio sull’osservanza dell’obbligo di reperibilità non dipende dal fatto dell’esistenza della malattia (nel senso della necessità di ritenere il lavoratore assolto da tale obbligo soltanto perché effettivamente malato), è stato precisato che – in presenza di una contrattazione collettiva contenente (quale anche il CCNL per il personale non dirigente di P.I.: cfr. art. 43, commi 8 e 9) detto obbligo di reperibilità a carico del lavoratore – che il dipendente non può limitarsi a produrre il certificato medico attestante l’effettuazione di una visita specialistica, ma deve dare dimostrazione delle “comprovate necessità” che impediscono l’osservanza delle fasce orarie, e cioè che la visita non poteva essere effettuata in altro orario al di fuori delle predette fasce, “ovvero che la necessità della visita era sorta negli orari di reperibilità, tenuto conto che il giustificato motivo di assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità, di cui all’art. 5 della normativa sopra indicata, si identifica in una situazione sopravvenuta che comporti la necessità assoluta ed indifferibile di allontanarsi dal luogo nel quale il controllo deve essere esercitato” (cfr. Cass. n. 2756/1995; conforme Cass. n. 13982/1991).

Tale principio di diritto è stato ancora e più di recente ribadito da Cass. n. 3226/2008 (già citata nella sentenza impugnata), per la quale “in tema di controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori dipendenti, volti a contrastare il fenomeno dell’assenteismo e basati sull’introduzione di fasce orarie entro le quali devono essere operati dai servizi competenti accessi presso le abitazioni dei dipendenti assenti dal lavoro, ai sensi dell’art. 5, co. 14°, d.l. 12 settembre 1983 n. 496, convertito con modificazioni dalla legge n. 638 del 1983, la violazione da parte del lavoratore dell’obbligo di rendersi disponibile per l’espletamento della visita domiciliare di controllo entro tali fasce assume rilevanza di per sé, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, e può anche costituire giusta causa di licenziamento”.

Nel caso di specie, la Corte, con motivazione adeguata e comunque non oggetto di censure, ha accertato come l’appellante non solo non avesse mai documentato, neppure ex post, alcuna causa di giustificazione in relazione all’assenza dal domicilio del 29/2/2008, ma avesse, per le quattro assenze precedenti (in data 25/10/2007, 10/12/07, 18/12/2007 e 18/1/2008), prodotto certificati medici, oggetto di specifico esame, inidonei a provare un serio e fondato motivo che giustificasse l’assenza alle visite domiciliari di controllo (cfr. sentenza, p. 5).

La Corte territoriale risulta altresì avere esaminato la relazione di consulenza medico legale depositata dal ricorrente, traendone il convincimento che neppure da essa fosse possibile ritenere provata la sussistenza di un giustificato motivo di assenza, atteso che – come riconosciuto dallo specialista che l’aveva redatta – la cura praticata dal M. si attua secondo appuntamenti concordati con il centro terapeutico (p. 6).

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

La Corte ha, infatti, accertato come il lavoratore fosse stato rinvenuto ripetutamente assente alle visite domiciliari di controllo della malattia e come avesse reiterato il medesimo comportamento rilevante sul piano disciplinare, pur dopo l’applicazione della prima sanzione (della multa) e di quelle (sospensione dal servizio) in seguito, e secondo una progressione crescente (un giorno, cinque e dieci giorni), adottate dal datore di lavoro: comportamento, questo, per la cui valutazione, ai fini del giudizio di proporzionalità in rapporto alla più grave misura espulsiva da ultimo inflitta, non poteva restare indifferente il contenuto delle mansioni assegnate, e cioè di preposto ad un ufficio, tali da comportare compiti di coordinamento e di controllo di altri dipendenti.

Su tali premesse, la sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state rivolte.

L’art. 43, comma 9, CCNL per il personale non dirigente di P.I. S.p.A. prevede esplicitamente che il “constatato mancato rispetto da parte del lavoratore degli obblighi” indicati al precedente co. 8 (e cioè l’obbligo del lavoratore in malattia di trovarsi fin dal primo giorno di assenza dal lavoro nel domicilio comunicato al datore “in ciascun giorno, anche se domenicale o festivo, dalle ore 10 alle 12 e dalle ore 17 alle 19” nonché l’obbligo di dare “preventiva comunicazione alla Società” nel caso in cui, durante tali fasce orarie, egli debba assentarsi dal proprio domicilio “per visite, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi”), “comporta la perdita del trattamento di malattia, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, ed è sanzionabile con l’applicazione di provvedimento disciplinare”.

Non rileva, d’altra parte, che l’applicazione di una sanzione sia configurata come una “possibilità” (laddove risulta affermato che il mancato rispetto degli obblighi a carico del lavoratore è sanzionabile) e non come “effetto automatico” dell’infrazione, posto che l’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro rientra comunque, su di un piano generale, nella sfera della sua discrezionalità e che la previsione della “possibilità” di tale esercizio, quale delineata dalle parti collettive con la norma in esame, assicura di per sé della rispondenza della decisione datoriale di farvi eventuale ricorso alla comune volontà dei contraenti.

La sentenza si sottrae altresì alle censure del ricorrente con riguardo alle disposizioni di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 55 CCNL di riferimento.

In particolare, e diversamente da quanto sembra sostenere il lavoratore, che imputa alla sentenza di non avere tenuto in debito conto l’assenza di intenzionalità/mala fede nel comportamento sanzionato, il co. 4 prevede esplicitamente che nella valutazione dell’entità afflittiva del provvedimento disciplinare si debba avere riguardo non solo alla intenzionalità del comportamento ma anche al “grado di negligenza” dimostrato da esso, elemento soggettivo rispetto al quale la Corte territoriale ha correttamente evidenziato la reiterazione in un contenuto periodo di tempo della identica condotta e la sua costante riproduzione pur a fronte della relativa e conseguente progressione sanzionatoria, consumatasi a partire dall’ottobre 2007.

Né, sulla scorta di tali valutazioni, può ritenersi che la Corte abbia trascurato l’ulteriore previsione del comma 4, là dove è stabilito che la verifica dell’osservanza del principio di “gradualità e proporzionalità” nell’applicazione delle sanzioni debba volgersi anche a comprendere la valutazione del “comportamento complessivo del lavoratore”, avendo le parti collettive espressamente precisato sul punto che tale valutazione debba avere ” particolare riguardo ai precedenti disciplinari nell’ambito del biennio”; o la previsione di cui al comma 5 dello stesso art. 55, che per “mancanze della stessa natura già sanzionate nel biennio” (come nella fattispecie) consente l’irrogazione, a seconda della gravità del caso e delle circostanze, di una sanzione di livello più elevato rispetto a quella già inflitta: profilo che la Corte risulta aver preso in considerazione attraverso gli elementi già posti in evidenza e il rilievo della mancanza di alcuna giustificazione, neppure ex post, a proposito dell’assenza all’ultima visita domiciliare di controllo, nel quadro di un codice disciplinare (art. 56) che vede la “recidiva plurima, nell’anno, delle mancanze previste nel precedente gruppo” sanzionata proprio con la misura (recesso con preavviso) da ultimo adottata da P.I. e oggetto di impugnazione.

Il ricorso deve conseguentemente essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Respinge il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.

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Tags: Sicurezza lavoro Cassazione

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