Consiglio di Stato Sezione Terza 20 ottobre 2021 n. 7045
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CS Sez. Terza 20 ottobre 2021 n. 7045 / Legittimità della vaccinazione obbligatoria ex art. 4 del d.l. n. 44/2021
La vaccinazione obbligatoria selettiva introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 risponde ad una chiara finalità di tutela non solo del personale sanitario sui luoghi di lavoro, ma a tutela degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, secondo il principio di solidarietà, che anima anch’esso la Costituzione, e più in particolare delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza.
Sentenza
ai sensi degli artt. 38 e 60 c.p.a. sul ricorso numero di registro generale 8340 del 2021, proposto da -OMISSIS- tutti rappresentati e difesi dall’Avvocato DG, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, ***;
contro
-OMISSIS-, in persona del Direttore Generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato EC e dall’Avvocato VC, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
-OMISSIS-, in persona del Direttore Generale pro tempore, e -OMISSIS-, in persona del Direttore Generale pro tempore, entrambe rappresentate e difese dall’Avvocato GB e dall’Avvocato AM, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato AM in Roma, ***;
-OMISSIS-, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza n. -OMISSIS-del Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia, sez. I, resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. tra le parti, che ha dichiarato inammissibile il ricorso collettivo e cumulativo proposto dagli odierni appellanti contro gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane, oggi appellate, hanno inteso dare applicazione nei loro confronti dell’obbligo vaccinale previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.
visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visti gli atti di costituzione in giudizio -OMISSIS-, dell’-OMISSIS- e -OMISSIS-
visti tutti gli atti della causa;
relatore nella camera di consiglio del giorno 14 ottobre 2021 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per gli odierni appellanti l’Avvocato DG, per -OMISSIS-l’Avvocato EC e per le appellate -OMISSIS- e -OMISSIS- l’Avvocato GB;
sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;
1.1. Essi contestano nel presente giudizio gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane hanno inteso dare applicazione, nei loro confronti, dell’obbligo vaccinale c.d. selettivo previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per gli esercenti le professioni sanitarie e per gli operatori di interesse sanitario.
2. Per comprendere a fondo il tema di causa, occorre ricordare che il citato art. 4, nel comma 1, dispone che, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all’art. 1, comma 457, della l. n. 178 del 2020 – e, cioè, il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, finalizzato a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale – e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza», gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della l. n. 43 del 2006, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.
2.1. La vaccinazione costituisce espressamente, ai sensi del citato comma 1, «requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati» ed è somministrata nel rispetto delle indicazioni fornite dalle Regioni, dalle Province Autonome e dalle altre autorità sanitarie competenti, in conformità alle previsioni contenute nel piano.
2.2. L’unica esenzione dall’obbligo vaccinale, con differimento o, addirittura, omissione del trattamento sanitario in prevenzione, è doverosamente prevista, nel comma 2, per il solo caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale.
2.3. L’art. 4 prevede un complesso procedimento per l’accertamento e l’esecuzione dell’obbligo vaccinale, disciplinato analiticamente dai commi 3, 4 e 5.
2.4. Secondo quanto prevede il comma 3, entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmette l’elenco degli iscritti, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla Regione o alla Provincia autonoma in cui ha sede.
2.5. Entro il medesimo termine i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali trasmettono l’elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla Regione o alla Provincia autonoma nel cui territorio operano i medesimi dipendenti.
2.6. Ancora, e successivamente, entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi di cui al comma 3, le Regioni e le Province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi e, quando dai sistemi informativi vaccinali a disposizione della Regione e della Provincia autonoma non risulta l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell’ambito della campagna vaccinale in atto, la Regione o la Provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’Azienda sanitaria locale – di qui in avanti, per brevità, anche solo l’A.S.L. – di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati.
2.7. Ricevuta la segnalazione di cui al comma 4, l’A.S.L. di residenza invita l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione o l’omissione o il differimento della stessa, ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1.
2.8. In caso di mancata presentazione della documentazione prevista dalla legge, l’A.S.L., successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo di cui al comma 1 oppure, in caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’A.S.L. invita l’interessato a trasmettere immediatamente, e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.
3. Gravi ed incisive sono le conseguenze dell’inadempimento ingiustificato all’obbligo vaccinale perché, come prevede espressamente l’art. 4, comma 6, del d.l. n. 44 del 2021, decorsi i termini per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale di cui al comma 5, l’A.S.L. competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza.
3.1. L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’A.S.L. determina «la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2», come espressamente stabilisce ancora il comma 6 dell’art. 4.
3.2. La sospensione di cui al comma 6 è comunicata immediatamente all’interessato dall’Ordine professionale di appartenenza e, ricevuta la comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.
3.3. Quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, stabilisce infine il comma 8, per il periodo di sospensione di cui al comma 9 – e, cioè, «fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021» – non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato.
4. La legittimità di questa disciplina, che introduce tale obbligo vaccinale per le professioni sanitaria e conferisce alle AA.SS.LL. un potere, vincolato a rigorosi requisiti, volto ad accertare l’adempimento di tale obbligo, con incisive – per quanto temporanee – conseguenze sanzionatorie sul rapporto lavorativo in caso di ingiustificato inadempimento, è stata contestata dagli odierni appellanti nel presente giudizio avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), in quanto da essi ritenuta incompatibile con il diritto convenzionale, con quello eurounitario e con diversi parametri costituzionali
4.1. Essi hanno chiesto dunque al Tribunale, proponendo diverse censure che di seguito saranno esaminate, di disapplicare la normativa sospettata di illegittimità o, comunque, di sollevare questione di compatibilità del diritto nazionale con quello europeo avanti alla Corte di Giustizia UE o questione di costituzionalità avanti alla Corte costituzionale al fine, evidentemente, di ottenere l’annullamento, previa sospensione in via cautelare, degli atti con i quali le Aziende sanitarie friulane hanno inteso dare attuazione, nei loro confronti, all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.
4.2. Nel primo grado del giudizio si sono costituite -OMISSIS-, deducendo l’inammissibilità del ricorso o, comunque, l’infondatezza di questo.
4.3. Nella camera di consiglio dell’8 settembre 2021, fissata per l’esame dell’istanza cautelare proposta dai ricorrenti, il Tribunale ha dato avviso alle parti della propria intenzione di trattenere la causa in decisione per una sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., e ha indicato a tal fine una possibile ragione di inammissibilità del ricorso, costituita dalla carenza dei presupposti per la proposizione di una impugnazione collettiva e cumulativa.
4.4. I ricorrenti hanno rinunciato alla loro istanza cautelare, insistendo per il rinvio della causa al merito già richiesto due giorni prima con apposita istanza, ma il Tribunale, all’esito di un’ampia discussione, documentata, come si vedrà, anche dal verbale dell’udienza camerale, ha trattenuto la causa in decisione in forma semplificata.
4.5. Con la sentenza n. 263 del 10 settembre 2021, resa appunto in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso per la ritenuta carenza dei presupposti per la proposizione di una impugnazione collettiva e cumulativa.
4.6. Il primo giudice, dopo avere valutato la rinuncia dei ricorrenti all’istanza cautelare come irrilevante e, comunque, non ostativa alla definizione del giudizio ai sensi dell’art. 60 c.p.a. con sentenza in forma semplificata, ha invero ritenuto che il ricorso di primo grado violerebbe i principî che presiedono alla proposizione del ricorso collettivo e cumulativo.
4.7. Quanto al primo profilo, inerente alla collettività del ricorso, il Tribunale ha infatti rammentato che il cumulo soggettivo può essere ammesso solo ove sussistano congiuntamente i requisiti dell’identità delle situazioni sostanziali e processuali dei ricorrenti – e, cioè, che le domande giudiziali siano identiche nell’oggetto e che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e che vengano censurati per gli stessi motivi – e, in negativo, dell’assenza di un conflitto di interesse.
4.8. Quanto al secondo profilo, inerente alla cumulatività del ricorso, il Tribunale ha ricordato ancora che il ricorso deve avere ad oggetto un solo provvedimento e che il cumulo oggettivo è consentito solo qualora tra gli atti impugnati esista una connessione procedimentale e funzionale, tale da giustificare la proposizione di un unico ricorso, al fine di riscontrare una connessione oggettiva tra gli atti impugnati, in quanto riferibili ad una stessa unica ed unica sequenza procedimentale o iscrivibili all’interno della medesima azione amministrativa.
4.9. I requisiti per la proposizione del ricorso collettivo e cumulativo difetterebbero invece, nel caso di specie, perché non vi sarebbe omogeneità né, sul piano soggettivo, nelle qualifiche professionali dei ricorrenti – essendo alcuni di essi medici, altri farmacisti, altri dipendenti di Aziende sanitarie o di strutture private – né, ancor meno, nella natura degli atti impugnati, alcuni dei quali meramente endoprocedimentali – come, ad esempio, per gli inviti a produrre la documentazione sanitaria di cui al citato art. 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021 – o comunque non conclusivi dell’iter amministrativo configurato dal legislatore per accertare l’inadempimento dell’obbligo vaccinale.
5. Soltanto l’atto conclusivo del procedimento previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 avrebbe insomma, ad avviso del primo giudice, natura provvedimentale e radicherebbe l’interesse a ricorrente, non già gli atti pregressi e prodromici della sequenza procedimentale, privi di immediata valenza lesiva.
5.1. Il Tribunale ha in conclusione dichiarato inammissibile il ricorso, per le ragioni esposte, e ha condannato i ricorrenti, invero numerosi, a rifondere le spese del giudizio nei confronti delle tre Aziende sanitarie costituitesi in resistenza.
6. Avverso questa sentenza gli interessati hanno proposto appello avanti a questo Consiglio di Stato, deducendone l’erroneità del giudizio per cinque motivi che di seguito saranno esaminati e riproponendo, altresì, le dieci censure di illegittimità dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 articolate in primo grado e non esaminate nel merito dal Tribunale, e hanno chiesto, più in particolare:
- in via principale, di accogliere il ricorso e, per l’effetto, di annullare la sentenza impugnata e, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., di rimettere la causa al primo giudice, anche al fine di proporre motivi aggiunti, dal primo giudice, a loro dire, illegittimamente impediti, oppure di riformare la sentenza impugnata, nel merito, e accogliere il ricorso di primo grado;
- in via subordinata, di rimettere, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., all’Adunanza plenaria l’esame della questione, anche in considerazione dei principî generali che essa involge, se l’art. 60 c.p.a. consenta al giudice di pronunciare in forma semplificata anche laddove sia intervenuta una espressa dichiarazione di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare da parte dei ricorrenti;
- in via di estremo subordine, accogliere il quinto motivo di appello e, per l’effetto, di compensare le spese del giudizio di primo grado.
6.1. Gli appellanti hanno altresì richiesto, insieme all’annullamento o alla riforma della sentenza impugnata con il conseguente risarcimento dei danni, anche la sospensione della sua esecutività ai sensi dell’art. 98 c.p.a.
6.2. Si sono costituite le appellate, -OMISSIS-, chiedendo la reiezione del gravame e, dunque, la conferma della dichiarata inammissibilità del ricorso proposto in prime cure o comunque, nel merito, deducendone l’infondatezza, anche in punto di domanda risarcitoria formulata consequenzialmente dagli appellanti.
6.3. Nella camera di consiglio del 14 ottobre 2021, fissata avanti a questo Consiglio di Stato per l’esame dell’istanza cautelare proposta dagli appellanti, il loro difensore, l’Avvocato DG, ha dichiarato di rinunciare all’istanza cautelare, al fine di richiedere una sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., in ordine alla definizione del giudizio in forma semplificata decisa per parte sua dal parte del primo giudice nonostante la rinuncia all’istanza cautelare, proposta in primo grado, e la volontà, a suo dire palesata dal difensore dei ricorrenti presente nell’udienza camerale tenutasi avanti al Tribunale, l’Avvocato MM, di proporre motivi aggiunti.
6.4. Questo Collegio si è riservato di decidere con sentenza in forma semplificata, ai sensi e per gli effetti dell’art. 60 c.p.a., anche e proprio su richiesta dello stesso difensore degli appellanti, e udita la discussione dei difensori presenti, come da verbale, ha trattenuto la controversia in decisione.
7. L’appello è in parte fondato per le ragioni che si esporranno, in quanto il ricorso di primo grado, proposto dagli odierni appellanti, era ed è ammissibile nel caso di specie, ma deve, ad avviso di questo Consiglio, essere respinto nel merito.
7.1. Il Collegio ritiene anzitutto doveroso soffermarsi, per l’importanza preliminare della questione in rito sollevata dagli appellanti e ribadita oralmente dal loro difensore, l’Avvocato DG, nel corso della camera di consiglio del 14 ottobre 2021, sulla ratio dell’art. 60 c.p.a. e, più in generale, della sentenza in forma semplificata nel codice del processo amministrativo.
7.2. L’art. 60 c.p.a. prevede che, «in sede di decisione della domanda cautelare», purché siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con una sentenza in forma semplificata – modulo decisorio il cui schema generale è fissato dall’art. 74 c.p.a. – «salvo che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di giurisdizione, ovvero regolamento di giurisdizione».
7.3. La sentenza in forma semplificata non costituisce per il giudice un metodo alternativo o, peggio ancora, spicciativo o frettoloso di risolvere la controversia, ma rappresenta, anche in sede cautelare, un modo ordinario di definizione del giudizio – previsto espressamente, infatti, quale regola in alcuni riti speciali: ad esempio quello dell’ottemperanza (art. 114, comma 3, c.p.a.), quello sul silenzio (art. 117, comma 2, c.p.a.), quello dei contratti pubblici (art. 120, comma 6, c.p.a., addirittura in deroga ai limiti di cui al primo periodo dell’art. 74 c.p.a.) – e, dunque, un modulo decisorio più rapido e semplificato adoperabile tutte le volte in cui il giudice ritenga di potersi pronunciare sulla controversia, senza ulteriori approfondimenti istruttori o adempimenti processuali, in quanto di pronta soluzione.
7.4. In via generale, l’art. 74 c.p.a. richiede, nel rito ordinario, che il giudice decida la causa in forma semplificata nel caso in cui ravvisi la manifesta fondatezza o la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso e, allorché adotta lo schema della sentenza in forma semplificata, la motivazione di questa può – non necessariamente deve - «consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme».
7.5. Lo schema della sentenza in forma semplificata è adottabile in via generale dal giudice collegiale, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., anche in sede cautelare all’esito dell’apposita camera di consiglio, sempre dopo avere sentito le parti e, dunque, nel doveroso rispetto del contraddittorio, quando ritenga completi sia il contraddittorio tra le parti che l’istruttoria della causa.
7.6. Questo Consiglio di Stato ha già chiarito che la sentenza semplificata ha una ratio, insieme, acceleratoria del giudizio e semplificatoria della motivazione, consentendo la rapida definizione, in sintonia con il generale principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di quelle controversie che non presentano profili di complessità, in fatto e in diritto, tali da richiedere una motivazione articolata, bastando uno schema argomentativo snello che si limiti ad indicare le poche essenziali questioni della controversia e cioè, come prevede in via generale l’art. 74 c.p.a., un sintetico riferimento al punto di fatto e di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme.
7.7. Tanto, del resto, in armonia e in ossequio al più generale obbligo, che grava sul giudice, di “concisione” dei motivi, in fatto e in diritto, della decisione, anche con rinvio ai precedenti ai quali intende conformarsi, previsto dall’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a. e in conformità al fondamentale principio di sinteticità, affermato dall’art. 3, comma 2, c.p.a., che non concerne solo gli atti di parte, ma anzitutto quelli del giudice, a cominciare dalla sentenza.
8. Ciò premesso, questo stesso Consiglio ha pure precisato che non può costituire motivo di appello la scelta del giudice di primo grado di pronunciare con uno od un altro dei tipi di sentenza previsti dall’ordinamento processuale e, quindi, anche con sentenza in forma semplificata, potendo solo essere censurata la motivazione che sorregge la pronuncia, quanto a congruità e correttezza.
8.1. Se una sentenza è resa in forma semplificata, con tale forma decisoria supponendosi una più stringata motivazione in relazione all’esame e decisioni assunte sui motivi di ricorso, ciò rileva non sul piano formale, poiché è irrilevante la qualificazione testuale dell’atto del giudice, bensì sul piano sostanziale e cioè, afferma la giurisprudenza di questo Consiglio, in ordine alla concreta sussistenza dei presupposti, quali la completezza di istruttoria e di contradditorio nonché l’adeguatezza della motivazione.
8.2. Ciò che comporta la proposizione, in sede d’impugnazione, di un motivo che tocchi il merito della decisione assunta dal primo giudice e non già di una censura meramente formale (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 7 febbraio 2018, n. 728; Cons. St., sez. IV, 20 novembre 2012, n. 5879).
8.3. La parte può tuttavia dolersi – ed è questo il caso dei primi due motivi di appello – che il giudice, nel decidere con sentenza in forma semplificata, abbia violato, se così può dirsi, per eccessiva sollecitudine il diritto di difesa o il contraddittorio tra le parti, aventi invece interesse a prendervi parte in modo attivo, ad impugnare altri atti o ad allegare o provare i fatti rilevanti prima della sua conclusione.
8.4. Una simile censura, come ora si vedrà, non può tuttavia muovere dall’erroneo assunto e non condivisibile assunto secondo cui il principio dispositivo, che vige con alcuni temperamenti anche nel giudizio amministrativo, conferisca alla parte un potere di impulso o di veto immotivato e incondizionato sul regolare e, ove possibile, sollecito andamento del processo che è, sì, tutela giurisdizionale di una situazione giuridica lesa, ma anche esercizio di una funzione pubblica, quella del ius dicere, che obbedisce a precise regole e a valori di rilievo costituzionale, i quali presidiano beni che non sono o, almeno, non sono del tutto nella disponibilità della parte.
8.5. Per questo il processo amministrativo è un processo di parte, ma non un processo delle parti.
8.6. È tenendo a mente queste brevi, sintetiche, preliminari considerazioni che può muoversi ora all’esame dei primi due motivi di appello, relativi proprio alla presunta assenza dei presupposti per pronunciare una sentenza in forma semplificata di cui all’art. 60 c.p.a., denunciata dagli odierni appellanti che, per la dedotta violazione del loro diritto di difesa, chiedono a questo Consiglio di rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a.
9. Con un primo motivo (pp. 33-39 del ricorso), anzitutto, gli odierni appellanti lamentano che il Tribunale avrebbe erroneamente trattenuto la causa in decisione, per la sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., nonostante essi avessero formulato un’espressa rinuncia alla domanda cautelare.
9.1. La rinuncia a detta domanda, secondo questa tesi, precluderebbe al giudice di trattenere la causa in decisione per emettere una sentenza in forma semplificata in quanto il giudice non avrebbe più il potere di decidere la causa anche nel merito una volta che i ricorrenti abbiano rinunciato alla proposizione della domanda cautelare, presupposto indispensabile affinché si attivi il potere/dovere di decidere in capo al giudice.
9.2. L’art. 60 c.p.a., questo è in nuce il ragionamento degli appellanti (v. pp. 33-34 del ricorso), prevede infatti espressamente che, «in sede di decisione della domanda cautelare», il Collegio possa decidere, ricorrendone gli altri presupposti, ma se vi è stata rinuncia alla domanda cautelare nessun potere decisorio spetta al giudice su una domanda ormai rinunciata.
9.3. La riprova di tanto si rinverrebbe anche nell’art. 71, comma 5, c.p.a., a mente del quale il termine per la notifica del decreto di fissazione dell’udienza di merito è ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l’udienza di merito è fissata a seguito della rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare.
9.4. La disposizione attribuirebbe autonomo rilievo alla rinuncia della parte ricorrente alla definizione dell’istanza cautelare, sicché la rinuncia espressa dei ricorrenti alla definizione autonoma dell’istanza cautelare e, quindi, ad una pronuncia giurisdizionale priverebbe il giudice del potere di rendere tale pronuncia.
9.5. Un simile argomento prova tuttavia troppo perché la rinuncia alla domanda cautelare esonera il giudice dall’obbligo di pronunciarsi su questa, ma non gli sottrae la facoltà di pronunciare con sentenza in forma semplificata sull’intera controversia, se le parti non oppongano validi motivi a questa soluzione, legati alla volontà di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione.
9.6. Nel caso di specie risulta dal verbale di udienza, il quale fa piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni effettuate, che il difensore dei ricorrenti abbia solo chiesto di rinviare la causa al merito, senza ulteriore motivazione, e di rinunciare comunque alla domanda cautelare, ma questo non preclude al giudice di potere definire la causa immediatamente, sussistendone gli altri presupposti di cui all’art. 60 c.p.a. (rispetto dei venti giorni dall’ultima notifica, completezza del contraddittorio e dell’istruttoria).
9.7. Gli appellanti richiamano a sostegno della loro tesi la sentenza di questo Consiglio, sez. IV, 5 giugno 2012, n. 3317, secondo cui la rinuncia alla domanda cautelare farebbe venire meno il presupposto per la decisione della domanda cautelare, unica sedes materiae individuata dal legislatore, ma sé questa un’unica, isolata, e ormai risalente pronuncia, che si fonda sul significato meramente letterale dell’espressione «in sede di discussione della domanda cautelare».
9.8. Si tratta, tuttavia, di un indirizzo ermeneutico superato dalla più recente e ormai consolidata giurisprudenza della giurisprudenza amministrativa – v., per tutte, Cons. St., sez. V, 28 luglio 2015, n. 3718, richiamata pure dalla sentenza impugnata – secondo cui sussistono i presupposti per la definizione del giudizio con sentenza ai sensi dell’art. 60 c.p.a., benché il difensore dell’appellante abbia dichiarato in camera di consiglio di rinunciare all’istanza cautelare, peraltro dopo essere stata avvisata di tale possibilità, in quanto le uniche cause ostative a tale definizione sono quelle, non sussistenti nel caso di specie, enunciate dalla disposizione del codice del processo appena citata e, cioè, il difetto del contraddittorio e la non completezza dell’istruttoria, che spetta al Collegio decidente apprezzare, nonché la dichiarazione della parte circa la volontà di «proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione».
9.9. Questo orientamento risponde al più generale principio secondo cui l’opportunità di una decisione nel merito della causa è rimessa dal legislatore al prudente apprezzamento del giudice e non già alla volontà delle parti, che possono, sì, rinunciare alla domanda cautelare, ma non già disporre come vogliono – in ragione di un malinteso senso del c.d. principio dispositivo – del funzionale e sollecito andamento del giudizio, informato ai valori del giusto processo e della ragionevole durata di questo (art. 111 Cost.).
10. Questo Consiglio ha in più occasioni affermato che il rito previsto dall’art. 60 c.p.a. non ha natura consensuale (Cons. St., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 178) e che nemmeno la mancata comparizione delle parti costituite all’udienza cautelare può impedire al Collegio di trattenere la causa in decisione per emettere sentenza in forma semplificata (Cons. St., sez. III, 7 luglio 2014, n. 3453).
10.1. L’espressione «in sede di decisione della domanda cautelare», contenuta nell’art. 60 c.p.a., sta solo a significare che il Collegio chiamato a decidere la domanda cautelare, in sede di camera di consiglio fissata per la discussione orale e dopo aver sentito ovviamente le parti sul punto, può decidere immediatamente e interamente nel merito la causa, se ve ne sono i presupposti, e non già che gli sia consentito farlo solo unitamente alla domanda cautelare, che dunque può essere oggetto di rinuncia dalla parte ricorrente senza che ciò precluda al giudice l’esame contestuale del merito.
10.2. Non depone in senso contrario la previsione dell’art. 71, comma 5, c.p.a., il quale stabilisce che il termine di sessanta giorni per la comunicazione del decreto che fissa l’udienza di discussione di merito può essere ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l’udienza di merito è fissata «in seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare», perché la disposizione non implica che in seguito alla rinuncia il giudice debba necessariamente fissare l’udienza di merito senza poter trattenere la causa immediatamente in decisione per il merito, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ma solo che il termine per la comunicazione di tale fissazione sia ridotto, su accordo delle parti, a quarantacinque giorni.
10.3. Dall’art. 71, comma 5, c.p.a. non può trarsi paradossalmente in via interpretativa, contro la ratio acceleratoria di tutte le previsioni del codice di rito, alcun divieto di sentenza in forma semplificata in seguito alla rinuncia alla domanda cautelare.
10.4. Anzi la ratio acceleratoria sottesa alla previsione dell’art. 71, comma 5, c.p.a. è ancor meglio soddisfatta dalla contestuale decisione della causa alla camera di consiglio fissata per la decisione della domanda cautelare, se le parti – come è stato nel caso presente – nulla abbiano da osservare e/o da opporre circa la sollecita definizione della causa, evitando finanche l’abbreviazione consensuale del termine a quarantacinque giorni e comunque l’ulteriore rinvio della causa all’udienza pubblica di merito.
10.5. Nello stesso senso deve essere letta la previsione dell’art. 71-bis, comma 2, c.p.a., secondo cui a seguito dell’istanza di prelievo, con cui la parte segnala l’urgenza del ricorso, il giudice, anche in questo caso accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite le parti costituite sul punto, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata.
10.6. Lo schema della sentenza semplificata – che, come si è premesso, ha valenza generale e non costituisce certo una deroga al principio dispositivo o una scorciatoia al pieno e satisfattivo contraddittorio tra le parti – è qui impiegato dal legislatore al di fuori del giudizio cautelare, come del resto accade anche nell’ipotesi dell’art. 74 c.p.a., in quanto l’art. 71-bis c.p.a. concerne l’ipotesi di definizione del merito, in seguito ad istanza di prelievo, mediante il rito camerale e secondo presupposto identici a quelli alla trattazione della domanda cautelare (pure esaminata in camera di consiglio).
10.7. Proprio questa previsione dell’art. 71-bis c.p.a. dimostra anzi, e contrario, che la definizione della causa nel merito con lo schema della sentenza in forma semplificata – qui secondo un modello ricalcato appieno e finalmente sulla falsariga dell’art. 60 c.p.a. – costituisce un potere immanente al sistema, riconosciuto al giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti.
10.8. Né è da attribuirsi eccessiva importanza o comunque valenza differenziale, come pretendono gli appellanti, all’espressione «in sede di decisione della domanda cautelare», usata dall’art. 60 c.p.a., rispetto a quella «in camera di consiglio», impiegata dall’art. 71-bis c.p.a., per trarne la conclusione che nella prima ipotesi sia necessaria, come prius logico-giuridico, la decisione sulla domanda cautelare, posto che la prima disposizione si riferisce e dà risalto, evidentemente, al momento in cui il Collegio è chiamato a decidere sulla domanda cautelare, senza fare riferimento al rito camerale, riferimento pleonastico poiché i giudizi cautelari, per disposizione generale (art. 55, comma 1, e art. 87, comma 2, lett. a), c.p.a.), si trattano in camera di consiglio, mentre la disposizione dell’art. 71-bis c.p.a. estende il rito camerale, in seguito ad istanza di prelievo, anche alla trattazione del merito, che normalmente si celebra in udienza pubblica, fermo restando che, anche nell’ipotesi di cui all’art. 71-bis c.p.a., l’erronea fissazione dell’udienza pubblica per la decisione in forma semplificata non costituirebbe motivo di nullità della decisione per il principio generale codificato dall’art. 87, comma 4, c.p.a.
10.9. Il principio dispositivo del processo e il potere di rinuncia alla domanda cautelare non possono dunque essere legittimamente invocati dalla parte per impedire al giudice l’esercizio del potere/dovere di definire il giudizio in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., laddove ve ne siano tutti i presupposti di legge, con inutile dilatazione dei tempi in un giudizio che, al contrario, potrebbe essere definito con una pronuncia immediata, contenente una sintetica motivazione.
10.10. E del resto, si deve qui osservare, la pure costante giurisprudenza di questo Consiglio afferma che è persino inammissibile la censura con la quale si denuncia la carenza dei presupposti per la definizione del giudizio di primo grado con sentenza in forma semplificata, all’esito della camera di consiglio fissata dal Tribunale per la trattazione dell’incidente cautelare, se le parti, espressamente informate dell’intenzione del Collegio giudicante di definire immediatamente nel merito la causa, nulla hanno obiettato (v., sul punto, Cons. St., sez. II, 3 giugno 2020, n. 3843), come nel caso presente, ove non risulta dal verbale di causa che il difensore degli appellanti si sia opposto alla definizione della causa in forma semplificata o abbia evidenziato la necessità di proporre motivi aggiunti.
10.11. Di qui, conclusivamente, la reiezione del primo motivo in esame, che non può trovare accoglimento nemmeno laddove invoca la rimessione della questione all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., non essendovene, ad avviso di questo Collegio, i presupposti nemmeno ai sensi del comma 2 di tale disposizione, se è vero che il precedente invocato dagli appellanti è risalente nel tempo e, come detto, isolato, mentre la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, per tutte le ragioni sistematiche sin qui sinteticamente esposte, è consolidata nell’affermare il principio secondo cui il rito di cui all’art. 60 c.p.a. non ha natura consensuale e che la rinuncia alla domanda cautelare, seppure legittima espressione del potere della parte di rinunciare a questa in base al c.d. principio dispositivo, non preclude al Collegio giudicante, se ne ve sono i presupposti di legge, il potere di decidere immediatamente la causa con sentenza in forma semplificata.
11. Con il secondo motivo (pp. 39-40 del ricorso), ancora, gli odierni appellanti deducono la violazione degli artt. 1, 2 e 60 c.p.a., dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 24 Cost. sotto diverso profilo, in quanto sostengono che l’Avvocato MM, nel corso dell’udienza camerale celebrata avanti al Tribunale, avrebbe dichiarato di voler proporre motivi aggiunti, circostanza, questa, preclusiva alla definizione della causa con sentenza in forma semplificata in base alla previsione, essa sì espressa e chiara, dell’art. 60 c.p.a.
11.1. Senonché, deducono ancora gli appellanti, la dichiarazione dell’Avvocato MM non risulterebbe dal verbale di udienza, che essi si riservano di impugnare eventualmente, ove occorra, anche con querela di falso, mentre in realtà la dichiarazione di voler proporre motivi aggiunti sarebbe stata fatta anche perché lo stesso Avvocato, su specifica domanda del relatore, aveva fatto presente che lo stato del procedimento di cui all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 era diverso per i vari ricorrenti, per quanto tutti sottoposti all’obbligo vaccinale, avendo «alcuni ricorrenti […] ricevuto solo la prima raccomandata, quella relativa all’invito a produrre la documentazione relativa all’effettuazione della vaccinazione, altri anche la seconda e la terza, rispettivamente l’invito formale a sottoporsi alla vaccinazione e l’accertamento dell’elusione dell’obbligo vaccinale» e, proprio per questo, l’Avvocato M avrebbe dichiarato – ciò che, tuttavia, non sarebbe stato verbalizzato – di voler proporre motivi aggiunti contro gli atti adottati a completamento e a definizione della sequenza procedimentale delineata dal più volte citato art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, intesi ad acclarare l’accertamento dell’elusione dell’obbligo vaccinale da parte (di alcuni) dei ricorrenti.
11.2. Peraltro, deducono ancora gli appellanti (p. 40 del ricorso), l’intenzione di proporre motivi aggiunti di ricorso avverso i successivi o adottandi atti di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale avrebbe giustificato, altresì, la rinuncia alla domanda cautelare, che sarebbe stata riproposta in sede di ricorso per motivi aggiunti, stante il grave pregiudizio derivante dagli atti di accertamento di inadempimento di detto obbligo per gli appellanti, costretti alla sospensione dell’attività professionale e di ogni conseguente compenso.
11.3. Il motivo, tuttavia, è anche esso infondato perché nel verbale dell’udienza camerale dell’8 settembre 2021, tenutasi avanti al Tribunale, non vi è traccia di una siffatta volontà di proporre motivi aggiunti, anche a fronte del rilievo officioso, da parte del Collegio giudicante, di una circostanza – quella, cioè, relativa al diverso stato del procedimento per i diversi ricorrenti – che sarebbe stata ed è poi stata ritenuta, da quel Collegio, motivo di inammissibilità del ricorso cumulativo proposto in prime cure.
11.4. Dalla lettura di tale verbale che, come ogni atto pubblico, fa piena prova, fino a querela di falso (v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2005, n. 3125) – allo stato nemmeno promosso ma solo, e in forma eventuale, preannunciata dal difensore – delle dichiarazioni effettuate dalle parti, risulta che «il Collegio si riserva di decidere anche con sentenza in forma semplificata ed evidenzia come il Collegio ha preso atto che il 6 settembre, nonostante l’avviso della fissazione dell’odierna camera di consiglio fosse stato consegnato ancora il 23 luglio, la difesa di parte ricorrente ha depositato richiesta di rinvio della sospensiva al merito, dimostrando di non conoscere che in questo Tribunale, ogniqualvolta ne ricorrano i presupposti, si è soliti definire i ricorsi con sentenza breve ex art. 60 cpa» e, ancora, che «il Collegio preliminarmente eccepisce, ai sensi dell’art. 73, comma 3 c.p.a., la possibile inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, date le diverse posizioni soggettive dei ricorrenti e gli atti impugnati che provengono da Amministrazioni diverse» e, infine, che «l’avvocato M insiste per il rinvio al merito e in subordine per la rinuncia alla sospensiva e, in replica all’eccezione del Collegio, sottolinea che le posizioni giuridiche sono le medesime e infatti le Aziende hanno emesso provvedimenti identici».
11.5. Non emerge da nessuna dichiarazione riportata nel verbale che l’Avvocato MM abbia richiesto un termine per la proposizione dei motivi aggiunti, non potendo ciò desumersi dal mero riferimento al rinvio al merito (non giustificato da alcuna motivazione), né che comunque si sia opposto alla definizione della causa in forma semplificata, preannunciata dal Collegio nonostante la rinuncia alla domanda cautelare formalizzata dagli appellanti il 6 settembre 2021, per qualche plausibile ragione, pur avendo espressamente egli controdedotto rispetto al rilievo officioso del Collegio – doverosamente sottoposto al contraddittorio tra le parti ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. – in ordine alla eventuale inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo.
11.6. Non possono certo costituire prove della dichiarata e qui riaffermata volontà di proporre motivi aggiunti, non risultante dal verbale che solo farebbe piena prova di tale affermata volontà, né la missiva inviata dall’Avvocato MM all’Avvocato DG il 13 ottobre 2021, prodotta sub doc. 2 nel presente giudizio d’appello tra i documenti depositati lo stesso 13 ottobre 2021, missiva nella quale l’Avvocato MM dichiara di avere significato «all’Ecc.mo Collegio che i ricorrenti, nelle more, avevano ricevuto ulteriore [sic] provvedimenti da parte delle Aziende Sanitarie Friulane, per i quali sarebbe stato comunque necessario disporre rinvio per la proposizione di atto di motivi aggiunti, come peraltro già significato nell’istanza depositata in giudizio in data 6 settembre 2021», né tantomeno la stessa istanza di rinvio al merito depositata il 6 settembre 2021, pure prodotta sub doc. 3 dagli appellanti nei citati documenti depositati il 13 ottobre 2021, posto che, a p. 7 di tale istanza, il difensore degli appellanti ha solo rappresentato che «i diritti e gli interessi fatti valere dai ricorrenti, possono, allo stato, essere adeguatamente tutelati mediante la sollecita fissazione dell’udienza di merito del ricorso, con riserva di agire nuovamente in sede cautelare, anche monocratica, ove le Aziende Sanitarie resistenti dovessero procedere nell’iter», delineato dal più volte citato art. 4 per l’accertamento dell’inadempimento all’obbligo vaccinale, instandosi affinché il Collegio di prime cure disponesse, senza la preventiva discussione, il rinvio dell’udienza di discussione dell’istanza cautelare all’udienza di merito, della quale si è chiesto «compatibilmente con le esigenze dell’Ufficio, la celere fissazione, anche per proporre motivi aggiunti avverso gli atti di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale che, medio tempore, dovessero essere adottati dalle Aziende Sanitarie resistenti».
11.7. Non la prima, si noti, perché è una mera dichiarazione di parte, che non trova alcuna conferma nemmeno implicita nel verbale dell’udienza camerale, e nemmeno la seconda, perché anche se l’istanza di rinvio al merito depositata il 6 settembre 2021 contiene o, meglio, preannuncia tale volontà di proporre motivi aggiunti in primo grado, peraltro in forma ipotetica e dubitativa perché nessun ulteriore atto di accertamento risultava essere stato ancora compiuto dalle Aziende Sanitarie friulane in quel momento, nondimeno la (confermata) fissazione dell’udienza camerale per la discussione dell’istanza cautelare, che non era stata oggetto di rinuncia nella predetta istanza (appunto, e solo, di abbinamento dell’istanza cautelare all’udienza di merito, salva la proposizione di eventuali istanze cautelari al sopravvenire di eventuali atti lesivi), e la volontà del Collegio, espressamente dichiarata a verbale, di procedere ad una sentenza in forma semplificata, peraltro su questioni – in parte – rilevate anche d’ufficio, imponeva alla parte rinunciante di dichiarare o, comunque, rinnovare espressamente la propria volontà di proporre motivi aggiunti, ciò che, peraltro, sarebbe stato difficilmente plausibile, in quel momento, per l’assenza di ulteriori atti da impugnare, poi sopravvenuti, come dimostrano i doc. 13 depositati il 13 ottobre 2021 dagli odierni appellanti.
11.8. Ne segue che non vi è stata alcuna violazione dell’art. 60 c.p.a., da parte del Collegio di prime cure, e d’altro canto la mancata proposizione, ad oggi, di una querela di falso del verbale, che ha efficacia pienprobante in ordine all’assenza di qualsiasi intenzione, dichiarata dal difensore dei ricorrenti, di proporre motivi aggiunti pur a fronte della prospettata possibilità, da parte del Collegio, di decidere la causa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., induce a ritenere che non vi siano ragioni per sospendere questo giudizio, ai sensi dell’art. 295 c.p.a., per una meramente lamentata, e nemmeno contestata nelle dovute forme giudiziali, falsità del più volte menzionato verbale.
11.9. Al riguardo basti qui solo ricordare che l’art. 77, comma 1, c.p.a. impone a chi deduce la falsità di un documento l’obbligo di provare che sia stata già proposta querela di falso o di domandare almeno la fissazione di un termine entro cui possa proporla innanzi al tribunale ordinario competente, ma nessuna delle due ipotesi ricorre nel caso di specie ove, come si è accennato, gli appellanti non hanno né proposto la querela né chiesto al Collegio un termine per proporla, riservandosi genericamente ogni iniziativa giudiziale a tutela dei loro diritti.
12. Di qui la reiezione anche del secondo motivo di appello a fronte della consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, per la quale tale dichiarazione di proporre motivi aggiunti deve essere esternata o comunque ribadita in udienza espressamente dalla parte interessata, come del resto prevede espressamente, e senza dare in questo caso adito ad alcuna ambiguità interpretativa, l’art. 60 c.p.a., posto che la parte, se non si è opposta alla decisione in forma semplificata, non può poi dolersi in appello della violazione del diritto di difesa o della lesione al principio del contraddittorio.
13. Con il terzo motivo (pp. 41-45 del ricorso) gli odierni appellanti censurano la sentenza impugnata per avere posto a fondamento della propria decisione, con cui, come si è visto, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, sia per ragioni di ordine soggettivo che oggettivo, una questione rilevata d’ufficio che, a loro dire, non sarebbe stata mai sollevata od eccepita da alcuna delle parti resistenti e, in particolare, nelle difese delle Aziende Sanitarie friulane, costituitesi in primo grado, come ha invece ritenuto la sentenza impugnata.
13.1. Gli appellanti insistono nel sostenere l’evidente differenza tra le eccezioni formulate dalle amministrazioni resistenti, relative alla pretesa diversità delle posizioni soggettive dei ricorrenti e alla provenienza degli atti impugnati da amministrazioni diverse, e la questione rilevata invece d’ufficio dal Collegio giudicante, concernente l’asserito diverso momento dell’iter accertativo previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.
13.2. Nonostante la specifica richiesta dell’Avvocato MM, che aveva comunque richiesto un termine per controdedurre, come si legge nel verbale dell’udienza camerale alle ore 10.11 («l’udienza viene sospesa per permettere al Collegio di ritirarsi in camera di consiglio» e, ancora, «alle ore 10.13, alla riapertura dell’udienza, il Collegio informa che l’eccezione di inammissibilità, sollevata ex art. 73, corrisponde sostanzialmente a quanto era stato già eccepito dall’avvocato B nella memoria del 3 settembre, nonché anche dalle altre parti, incluso l’avvocato C in quella del primo settembre e quindi, parte ricorrente, aveva tutto il tempo per replicare e alla luce di un tanto il Collegio non ritiene di accogliere la richiesta di rinvio e ricorda che la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire l’ininfluenza della rinuncia all’istanza cautelare rispetto alla possibilità del giudice di fare sentenza breve»), il Collegio ha comunque deciso di trattenere la causa per la decisione in forma semplificata.
13.3. E ciò, deducono gli appellanti, in modo erroneo perché il Collegio giudicante avrebbe dovuto concedere un termine per la corretta instaurazione del contraddittorio sulla questione sollevata d’ufficio, autorizzando le parti al deposito di scritti difensivi in proposito.
13.4. Il motivo è inammissibile, per difetto di interesse, e comunque infondato anche nel merito.
13.5. Ammesso e non concesso, infatti, che la questione del non consentito cumulo oggettivo delle azioni in un unico giudizio, per il diverso stato del procedimento in corso per ciascuno degli interessati, sia stata rilevata dal Collegio ex officio per la prima volta nell’udienza camerale, come sostengono gli appellanti, la declaratoria di inammissibilità si fonda, come si è detto, anche su una ratio decidendi autonoma da tale questione, e in sé sufficiente a sorreggere la statuizione di inammissibilità e, cioè, l’inammissibilità del ricorso collettivo anche e anzitutto per le differenti posizioni soggettive dei ricorrenti, appartenenti a categorie professionali diverse, sicché il motivo è inammissibile per difetto di interesse e la statuizione del primo giudice, in parte qua rispettosa del contradddittorio, rimarrebbe intangibile in quanto sorretta da una autonoma, incontestata ratio decidendi, quella relativa all’inammissibilità del cumulo soggettivo sotteso al ricorso collettivo, da sola sufficiente a sorreggere la pronuncia di inammissibilità impugnata (v., per questo principio, Cons. St., sez. IV, 12 novembre 2019, n. 7771).
13.6. Ma, anche nel merito, la censura è infondata perché, anche ammesso, si ripete, che la questione sia stata rilevata per la prima volta dal Collegio solo in sede di udienza camerale, mentre in realtà essa era stata eccepita in primo grado dall’Azienda Sanitaria del Friuli Occidentale nella memoria depositata il 1° settembre 2021 (v., in particolare, pp. 7-8, sul difetto di interesse ad agire per alcuni dei ricorrenti stante la natura endoprocedimentale degli atti impugnati), il giudice l’ha indicata in udienza, dandone atto a verbale, come prescrive l’art. 73, comma 3, c.p.a., senza alcun obbligo di assegnare un termine alle parti, come a torto sostengono gli appellanti, poiché l’assegnazione del termine a difesa è obbligatoria, per il giudice, solo quando il rilievo officioso della questione sia successivo al passaggio in decisione della causa, in modo di dare modo alle parti di interloquire almeno per iscritto sulla questione, senza alcuna decisione “a sorpresa”, che eluderebbe o tradirebbe il contraddittorio, qui invece pienamente rispettato, perché, come visto, l’Avvocato MM ha potuto interloquire correttamente in sede orale sul rilievo della questione.
13.7. In tal senso è anche la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui costituisce violazione del diritto del contraddittorio processuale e del diritto di difesa, in relazione a quanto dispone l’art. 73, comma 3, c.p.a., l’essere stata posta a fondamento di una sentenza di primo grado una questione rilevata d’ufficio, senza la previa indicazione in udienza o l’assegnazione di un termine alle parti per controdedurre al riguardo (Cons. St., sez. V, 2 gennaio 2019, n. 11).
13.8. Ne deriva l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza anche di questo terzo motivo di appello.
14. Con il quarto motivo gli odierni appellanti (pp. 45-54 del ricorso) lamentano l’erroneità della sentenza impugnata nell’avere dichiarato inammissibile il ricorso per la sostanziale eterogeneità delle loro posizioni, sia sul piano soggettivo, essendo alcuni di essi medici, altri infermieri, altri operatori sanitari o dipendenti di strutture sanitarie private, sia sul piano oggettivo, in quanto gli atti impugnati da ciascuno di essi si troverebbero in una diversa fase procedimentale.
14.1. Essi sostengono, al contrario, che la pronuncia di inammissibilità sarebbe erronea perché ricorrerebbero nel caso di specie tutti i presupposti per la proposizione del ricorso collettivo e cumulativo e, dunque, del simultaneus processus, in quanto:
a) tutti i ricorrenti versano nella medesima situazione processuale, essendo tutti, indistintamente, destinatari dell’obbligo imposto dalla legge e, conseguentemente, dei provvedimenti amministrativi che attuano la previsione legislativa, impugnati con il ricorso di primo grado;
b) tutti i ricorrenti si trovano anche nella medesima situazione processuale, essendo gli atti rivolti nei loro confronti già dotati di una autonoma lesività, a prescindere dalla loro natura di invito a dichiarare la propria situazione vaccinale, di invito formale alla vaccinazione o di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale.
14.2. Gli appellanti osservano in tale prospettiva che tutti questi atti costituirebbero piena attuazione del disposto dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, che si strutturerebbe, a loro dire, alla stregua di una legge-provvedimento, in quanto impositivo di un obbligo ad una determinata platea di soggetti, senza lasciare alla pubblica amministrazione alcuna discrezionalità, ma gravandola di una attività in tutto e per tutto vincolata alla legge stessa, frutto di un bilanciamento di interessi operato in sede legislativa e non di un procedimento amministrativo.
14.3. La stessa ricezione dell’invito a vaccinarsi, posto a monte della sequenza procedimentale tratteggiata dall’art. 4, determina per i ricorrenti l’obbligo a sottoporsi alla vaccinazione, sicché detta ricezione inciderebbe, in peius, sulla loro sfera giuridica, che ovviamente prima della nuova previsione legislativa non conosceva un siffatto obbligo.
14.4. Sarebbe perciò irrilevante lo stato dell’iter procedimentale in cui si trova la situazione propria e specifica di ciascuno degli odierni appellanti, se tutti i provvedimenti attuativi della previsione legislativa, dal primo all’ultimo, sono in realtà dotati di autonoma e immediata lesività.
14.5. Sussisterebbero insomma tutti i presupposti del cumulo soggettivo e oggettivo, posto che i ricorrenti sono tutti destinatari del precetto legislativo, che reca l’obbligo vaccinale, e tutti i provvedimenti costituiscono espressione del medesimo potere, che solo relativamente all’aspetto organizzativo è rimesso alle Aziende Sanitarie, ma in realtà è esercitato a monte dal legislatore.
15. Il motivo, per le ragioni che seguono, è fondato.
15.1. La giurisprudenza amministrativa afferma, con orientamento unanime, il principio consolidato per il quale la proposizione del ricorso collettivo da parte di più soggetti rappresenta invero una deroga al principio generale secondo il quale ogni domanda, fondata su un interesse meritevole di tutela, deve essere proposta dal singolo titolare con separata azione, con la conseguenza che la proposizione contestuale di un’impugnativa da parte di più soggetti, sia essa rivolta contro uno stesso atto o contro più atti tra loro connessi, è soggetta al rispetto di stringenti requisiti, sia “di segno negativo” che “di segno positivo” (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 13 ottobre 2020, n. 6174, Cons. St., sez. VI, Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2910, Cons. St., sez.V, 27 luglio 2017 n. 3725, Cons. St., sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921).
15.2. Costituisce ius receptum la massima per cui nel processo amministrativo il ricorso giurisdizionale collettivo, presentato da una pluralità di soggetti con un unico atto, è ammissibile nel solo caso in cui sussistano, cumulativamente, i requisiti dell’identità di situazioni sostanziali e processuali – ossia, alla condizione che le domande giudiziali siano identiche nell’oggetto e gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e vengano censurati per gli stessi motivi – e l’assenza di un conflitto di interessi tra le parti.
15.3. Quanto all’ammissibilità del ricorso cumulativo contro più atti, poi, la regola altrettanto generale e tendenziale dell’impugnabilità, con un ricorso, di un solo provvedimento può essere derogata nelle sole ipotesi in cui la cognizione, nel medesimo giudizio, della legittimità di più provvedimenti sia imposta dall’esigenza di concentrare in un’unica delibazione l’apprezzamento della correttezza dell’azione amministrativa oggetto del gravame, quando questa viene censurata nella sua complessità funzionale e, soprattutto, per profili che ne inficiano in radice la regolarità e che interessano trasversalmente le diverse, ma connesse, sequenze di atti (Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2020, n. 526).
15.4. È perciò necessario ai fini dell’ammissibilità del ricorso cumulativo avverso distinti provvedimenti, come pure ha ben ricordato la sentenza impugnata, che gli stessi siano riferibili al medesimo procedimento amministrativo, seppur inteso nella sua più ampia latitudine semantica, e che con il gravame vengano dedotti vizi che colpiscano, nelle medesima misura, i diversi atti impugnati, di modo che la cognizione delle censure dedotte a fondamento del ricorso interessi allo stesso modo il complesso dell’attività provvedimentale contestata dal ricorrente, e che non residui, quindi, alcun margine di differenza nell’apprezzamento della legittimità dei singoli provvedimenti congiuntamente gravati.
15.5. Segue da ciò che, a titolo esemplificativo, nelle ipotesi in cui siano impugnate le diverse aggiudicazioni di distinti lotti di una procedura selettiva originata da un unico bando, l’ammissibilità del ricorso cumulativo resta subordinata all’articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni.
15.6. In questa situazione, infatti, si verifica una identità di causa petendi e una articolazione del petitum che, tuttavia, risulta giustificata dalla riferibilità delle diverse domande di annullamento alle medesime ragioni fondanti la pretesa demolitoria che, a sua volta, ne legittima la trattazione congiunta (Cons. St., sez. V, 13 giugno 2016 n. 2543).
15.7. Ancor più di recente si è rilevato che il ricorso cumulativo è ammissibile a condizione che ricorrano congiuntamente i requisiti della identità di situazioni sostanziali e processuali, che le domande siano identiche nell’oggetto e che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e che identiche siano altresì le censure, di talché anche nel caso di una gara unitaria suddivisa in più lotti ciò potrà ammettersi solo laddove vi sia articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni (Cons. St., sez. V, 17 giugno 2019, n. 4096).
16. I principi rassegnati dalla costante giurisprudenza amministrativa – v. di recente, inter multas, anche Cons. St., sez. III, 18 maggio 2021, n. 3847 – sono in stretta dipendenza con quanto affermato dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 5 del 27 aprile 2015, in cui si è avuto modo di stabilire i rigidi confini in cui si può essere proposto un ricorso cumulativo e, cioè, che la regola generale del processo amministrativo risiede nel principio secondo cui il ricorso abbia ad oggetto un solo provvedimento e che i motivi siano correlati strettamente a quest'ultimo, con la sola eccezione di atti contestualmente impugnati e a condizione, in questo caso, che sussista una connessione procedimentale o funzionale da accertarsi in modo rigoroso onde evitare la confusione di controversie con conseguente aggravio dei tempi del processo o, addirittura, l’abuso dello strumento processuale per eludere le disposizioni fiscali in materia di contributo unificato.
17. La proposizione di un ricorso cumulativo o collettivo al di fuori dei casi in cui ciò è consentito rende il ricorso inammissibile, in quanto l’ammissibilità del ricorso è una condizione di decidibilità nel merito – lo si ricava a contrario dall’art. 35, comma 1, lett. b) e c), c.p.a. – secondo cui il ricorso deve essere dichiarato inammissibile o improcedibile, a seconda dei casi, quando sussistono o sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito.
18. Tale evenienza rientra, dunque, nell’ambito delle condizioni dell’azione e, cioè, dei requisiti necessari affinché la domanda proposta al giudice possa essere decisa nel merito e non dei presupposti processuali, essendo il processo ritualmente instaurato e potendo proseguire fino alla decisione (per l’elencazione degli uni e degli altri v., comunque, Cons. St., Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5);
18.1. I limiti alla proposizione dei ricorsi collettivi, come del resto, analogamente, dei ricorsi cumulativi, per la costante giurisprudenza amministrativa si giustificano:
a) per l’esigenza che il processo amministrativo abbia per oggetto specifiche questioni riguardanti i singoli ricorrenti, mirando a statuizioni che specificamente determinino l’assetto dei rapporti tra essi e la pubblica amministrazione intimata in giudizio;
b) per l’esigenza di consentire l’effettività della difesa della amministrazione intimata, che nei termini di legge deve poter apprestare le proprie difese con riferimento ai singoli casi, e non alla complessiva legittimità degli atti – dal contenuto eterogeneo – di un procedimento amministrativo coinvolgente più soggetti;
c) per l’esigenza di organizzare i ruoli di udienza ed i carichi di lavoro dei singoli magistrati, difficilmente gestibili qualora debbano essere esaminati ricorsi riguardanti più ricorrenti che prospettano censure non omogenee avverso atti dal contenuto eterogeneo.
19. Se ora si tengono a mente e si applicano tutte queste coordinate interpretative in sintesi qui ricordate al caso di specie, risulta chiaro che, pur non condividendosi la tesi sostenuta dagli appellanti secondo cui l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 sarebbe una legge-provvedimento (di cui non ha invece i requisiti poiché, a tacer d’altro, non eleva a livello legislativo una disciplina già oggetto di un atto amministrativo: v., sulle leggi-provvedimento, Corte cost., 23 giugno 2020, n. 116), nel caso di specie sussistono tutti i presupposti per l’ammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, in quanto:
a) sul piano soggettivo, i ricorrenti si trovano tutti nella medesima posizione, indistintamente, poiché essi sono tutti destinatari del precetto legislativo, nonostante la diversa categoria professionale alla quale eventualmente appartengano, che li obbliga alla vaccinazione contro il virus Sars-CoV-2;
b) sul piano oggettivo, i ricorrenti impugnano i diversi atti della sequenza procedimentale non per vizi propri e specifici di questi, che introdurrebbe in questa sede una inammissibile – essa sì – differenziazione delle censure dovuta alla singolarità di ogni singola vicenda concreta, ma perché espressivi, tutti, di un potere che essi contestano in radice sulla base di motivi identici e comuni a tutte le posizioni, siccome diretti, come in seguito si vedrà meglio esaminando queste censure nel merito, a fare emergere il contrasto dell’obbligo vaccinale, in radice, con molteplici disposizioni del diritto europeo, convenzionale ed interno.
19.1. È dunque irrilevante ai fini di questo specifico e certo particolare giudizio, avuto riguardo al petitum e alla causa petendi dell’azione proposta tesa unicamente a contestare in radice la legittimità dell’obbligo vaccinale introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, sia la specifica qualifica professionale degli appellanti, purché ovviamente rientrante – ma ciò è incontestato fra le parti – tra quelle assoggettate all’obbligo di legge, sia lo stato, iniziale, avanzato o conclusivo, del procedimento avviato dalle Aziende Sanitarie per l’accertamento dell’obbligo vaccinale e l’irrogazione delle eventuali sanzioni in caso di inadempimento.
19.2. Tutti gli atti della sequenza procedimentale introdotta e disciplinata dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, a fronte di un potere vincolato, per l’amministrazione, ai presupposti determinati dalla legge e vincolante per i destinatari, sono egualmente lesivi per la sfera giuridica dei ricorrenti che, si badi, non lamentano soltanto una violazione del loro diritto al lavoro e alla retribuzione (art. 36 Cost.), ma una violazione diretta, e radicale, anche del loro fondamentale diritto ad autodeterminarsi (artt. 2 e 32 Cost.), diritto che, evidentemente, è leso da tutto il procedimento inteso ad accertare l’inadempimento a tale obbligo, dal principio alla fine, in quanto ogni atto di questo procedimento, indipendentemente dalla maggiore e crescente incisività dei suoi effetti via via che il procedimento avanza, invade la sfera giuridica dei destinatari e l’ambito di autonomia decisionale e, per così dire, dell’habeas corpus che essi reclamano.
19.3. Se ben si riflette, ad essere contestata complessivamente contestata nel presente giudizio è l’intera azione amministrativa posta in essere dalle Aziende Sanitarie in attuazione del potere vincolato loro conferito dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per l’accertamento dell’obbligo vaccinale, di cui si lamenta la sostanziale ingiustizia per il contrasto con superiori disposizioni e valori di rilievo europeo e nazionale, non i singoli effetti individuali né i singoli segmenti procedimentali di questa.
19.4. Un diverso ragionamento che inclinasse alla differenziazione interna a questo interesse, qui – seppure per l’eccezionalità della vicenda – unitario e inscindibile, condurrebbe, del resto, alla inutile frammentazione e, per dir così, alla ingiusta polverizzazione della domanda, comune e omogenea a tutti i ricorrenti.
19.5. Questa domanda ha certo ad oggetto una complessa e multiforme, ma anche compatta e coordinata e, in fin dei conti, unitaria azione amministrativa, che pure incide e inciderà, questo è vero, in misura diversa all’esito del procedimento e a seconda dei casi sulla sfera giuridica di molti soggetti.
19.6. Proprio per la sostanziale unitarietà, sul piano funzionale e in questa fase, l’esercizio del potere qui contestato, da parte delle Aziende appellate, può essere riguardato come unitario ed omogeneo, come unitarie ed omogenee a tutti i ricorrenti sono le censure che essi muovono agli atti espressivi di questo potere.
19.7. A fronte di questa vicenda, così correttamente intesa sul piano sostanziale e inquadrata in senso funzionale, al di là di meri schemi formali e atomistici, l’inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo produrrebbe solo decine, se non centinaia, di cause e di processi pendenti avanti al Tribunale – come avanti a molti Tribunali amministrativi regionali in tutta Italia – chiamato, al pari di tanti Tribunali, a decidere cause-fotocopia, in quanto in esse ogni singolo ricorrente propone, e sarebbe costretto a proporre, le stesse identiche censure di legittimità in radice contro l’introduzione dell’obbligo vaccinale, censure che invece potrebbero essere delibate e sono state, in effetti, proposte in un unico giudizio, anche in attuazione, merita qui solo aggiungere, dei principi di concentrazione e di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).
20. La giurisprudenza amministrativa più recente viene orientandosi verso una concezione non formalistica delle condizioni per proporre il ricorso collettivo e cumulativo, visione che, pur continuando doverosamente a considerare la proposizione di questo ricorso, come detto, un’eccezione ai principî di cui si è detto, secondo cui ogni distinto provvedimento si impugna con un distinto ricorso, tiene presente e pone in primario risalto, nel valutare l’ammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, il bene della vita, oggetto del ricorso, e in rapporto a questo l’interesse azionato dai ricorrenti che, nel caso di specie, è la contestazione della legittimità, in sé, dell’obbligo vaccinale, con diverse questioni di compatibilità con il diritto eurounitario e di costituzionalità.
20.1. I distinti atti e provvedimenti impugnati nel presente giudizio si riferiscono tutti a procedimenti, paralleli ma collegati, intesi a far rispettare, nella unitarietà dell’azione amministrativa coordinata e finalizzata in tale direzione doverosa per l’amministrazione, l’obbligo vaccinale da parte delle Aziende Sanitarie; i profili di illegittimità dedotti sono i medesimi per tutti i ricorrenti, indistintamente; non vi è alcun conflitto di interesse, nemmeno adombrato dalle amministrazioni resistenti, nelle posizioni dei singoli ricorrenti.
20.2. Sono così rispettate sostanzialmente tutte le condizioni (Cons. St., sez. III, 1° giugno 2020, n. 3449) al ricorrere delle quali è possibile ammettere, e doveva essere ammesso dal primo giudice, il ricorso collettivo e cumulativo, la cui trattazione in un simultaneus processus, avuto riguardo alla specificità e, si aggiunga, la delicatezza del presente giudizio, non solo è legittima, ma più che mai opportuna, senza inutile proliferazione di identici innumerevoli giudizi, identici, che ingolferebbero soltanto i ruoli dei diversi Tribunali amministrativi in tutta Italia, in assenza di specifiche contestazioni rivolte contro il singolo atto per vizi proprî – e non derivati – dell’atto stesso.
20.3. Ne segue che il quarto motivo di appello in esame deve essere accolto, con la conseguente ammissibilità, erroneamente negata dalla sentenza impugnata, del ricorso proposto dagli odierni appellanti.
21. Questi hanno riproposto – pp. 61-80 del ricorso, in particolare – tutte le dieci censure articolate nel ricorso di primo grado che, quindi, devono ora essere esaminate nel merito da parte di questo Consiglio, in sede di appello, in seguito alla riforma della sentenza che ha erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, secondo le regole del codice del processo amministrativo e i principî sull’effetto devolutivo dell’appello sanciti dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (v., ad esempio, Cons. St., Ad. plen., 28 settembre 2018, n. 15).
21.1. Diviene così improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse il quinto motivo di appello (pp. 54-56 del ricorso), che contesta la statuizione relativa alla spese del giudizio al cui pagamento i ricorrenti sono stati condannati in solido a favore delle Aziende costituitesi, in quanto la riforma della sentenza impugnata, con la necessità di esaminare nel merito le censure sollevate in primo grado, rende necessario rivedere integralmente il regolamento di dette spese all’esito del giudizio, una volta valutata la soccombenza sostanziale e apprezzate, avuto riguardo ai motivi del decidere, le eventuali ragioni per disporre la compensazione delle spese inerenti al doppio grado del giudizio.
22. È appena il caso di ricordare, prima di esaminare nel merito queste censure, che il Collegio, anche in questa sede di pronuncia in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., è pienamente investito dell’intera cognizione delle censure sollevate in primo grado, in questa sede – come detto – riproposte dagli odierni appellanti, non essendo limitata la sua cognizione, per il pieno effetto devolutivo dell’appello, alle sole questioni relative agli eventuali errores in procedendo della sentenza impugnata, che per errore abbia pronunciato l’inammissibilità dell’originario ricorso, ma investendo pienamente anche il merito delle censure.
22.1. A questa piena cognizione, pur relativa – nel presente giudizio – a questioni molto delicate e complesse, non osta appunto la forma della decisione in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. che, come si è avuto modo di chiarire, non costituisce nel vigente ordinamento processuale un modulo sommario o affrettato di decisione, ma uno strumento generale di risoluzione della controversia, un modulo decisorio di estesa applicazione vincolato dal codice di rito a determinati presupposti, che si incentra sulla essenzialità della motivazione, definita sintetica.
22.2. Ed è qui appena il caso di ricordare, per l’importanza del principio, che l’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito, non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola, in quanto la sinteticità è «un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra due grandezze, la mole, da un lato, delle questioni da esaminare e, dall’altro, la consistenza dell’atto - ricorso, memoria o, infine, sentenza - chiamato ad esaminarle» (Cons. St., sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900) ed è, si deve qui aggiungere, sul piano processuale un bene-mezzo, un valore strumentale rispetto al fine ultimo, e al valore superiore, della chiarezza e della intelligibilità della decisione nel suo percorso motivazionale.
23. Tutto ciò premesso, nel riproporre in questo grado di appello le censure già articolate avanti al Tribunale, gli odierni appellanti fanno precedere ad esse un’ampia premessa di ordine tecnico-scientifico (pp. 57-61 del ricorso) nella quale sostengono che il breve tempo di cui si sono potute giovare le case farmaceutiche per gli studi, la predisposizione e la sperimentazione delle soluzioni vaccinali per prevenire il virus Sars-CoV-2 non ha consentito di raggiungere quelle condizioni di sicurezza e di efficacia dei vaccini, che devono precedere e assistere ogni prestazione sanitaria imposta ai sensi dell’art. 32, comma secondo, Cost.
23.1. Le stesse case farmaceutiche produttrici dei vaccini, essi deducono, riconoscono infatti, da un lato, che non sono ancora note le potenzialità dei vaccini, quanto alla capacità di impedire la trasmissione del virus, la capacità di impedire la contrazione della malattia e la durata dell’efficacia preventiva, mentre, dall’altro lato, esse stesse ammettono che non sono ancora note le conseguenze, soprattutto a lungo termine, derivanti dalla somministrazione dei vaccini, come emerge dagli ampi stralci delle note informative, riportate nel ricorso, che, sostengono ancora gli appellanti, i pazienti sarebbero costretti ad accettare mediante la sottoscrizione del modulo di consenso informato.
23.2. Anche le Autorità preposte alla valutazione e all’approvazione dei farmaci, in sede europea e nazionale, al pari dei produttori dei vaccini, non sarebbero ancora in grado di stabilire quali siano l’effettiva efficacia e sicurezza dei vaccini medesimi.
23.3. Ciononostante, il legislatore avrebbe inteso prevedere un singolare obbligo vaccinale in danno degli operatori sanitari, costretti a sottoporsi ad uno dei quattro vaccini autorizzati in Italia senza avere la certezza della loro efficacia e sicurezza.
23.4. L’assoluta carenza di certezza in ordine alle garanzie di efficacia e sicurezza delle soluzioni vaccinali sarebbe dimostrata dal fatto che la loro immissione in commercio è stata autorizzata dall’EMA mediante il rilascio di autorizzazioni condizionate che, adottate in esito a procedere ben più snelle rispetto a quelle ordinarie, impongono di continuare il monitoraggio e gli studi in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini medesimi e necessitano di essere rinnovate periodicamente, proprio in ragione dei risultati che emergeranno dagli studi in fieri.
24. La tesi degli appellanti si fonda su due presupposti, il primo di ordine scientifico e il secondo di ordine giuridico, entrambi fallaci, che non possono essere condivisi dal Collegio.
25. Passando all’esame del primo, relativo alla presunta mancanza di efficacia o sicurezza nei vaccini, occorre ricordare qui in sintesi, stante la complessità del quadro regolatorio che disciplina a livello accentrato la materia, che la commercializzazione del vaccino, secondo la vigente normativa dell’Unione europea, passa attraverso una raccomandazione da parte della competente Agenzia europea per i medicinali (EMA), che valuta la sicurezza, l’efficacia e la qualità del vaccino, sulla cui base la Commissione europea può procedere ad autorizzare la commercializzazione nel mercato dell’Unione, dopo avere consultato gli Stati membri che debbono esprimersi favorevolmente a maggioranza qualificata.
25.1. La normativa dell’Unione – in particolare l’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione – prevede uno strumento normativo specifico per consentire la rapida messa a disposizione di medicinali, da utilizzare in situazioni di emergenza, poiché in tali situazioni la procedura di “immissione in commercio condizionata” (CMA, Conditional marketing authorisation) è specificamente concepita al fine di consentire una autorizzazione il più rapidamente possibile, non appena siano disponibili dati sufficienti, pur fornendo un solido quadro per la sicurezza, le garanzie e i controlli post-autorizzazione.
25.2. In questa procedura, occorre qui aggiungere compiendo uno sforzo di sintesi, chiarificazione e semplificazione da parte di questo Collegio attesa la natura densamente tecnica della materia, si ha una parziale sovrapposizione delle fasi di sperimentazione clinica, che nella procedura ordinaria sono sequenziali, che prende il nome di “partial overlap” e che prevede l’avvio della fase successiva a poca distanza dall’avvio della fase precedente.
25.3. La leggera sfasatura nell’avvio delle fasi di sperimentazione riduce i rischi connessi ad una sovrapposizione delle fasi e accelera i normali tempi di svolgimento delle sperimentazioni, anche se fornisce dati meno completi rispetto alla procedura ordinaria di autorizzazione.
25.4. E tuttavia, si badi, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata non è una scorciatoia incerta e pericolosa escogitata ad hoc per fronteggiare irrazionalmente una emergenza sanitaria come quella attuale, ma una procedura di carattere generale, idonea ad essere applicata – e concretamente applicata negli anni passati, anche recenti, soprattutto in campo oncologico – anche al di fuori della situazione pandemica, a fronte di necessità contingenti (non a caso la lotta contro i tumori ne è il terreno elettivo), e costituisce una sottocategoria del procedimento inteso ad autorizzare l’immissione in commercio ordinaria perché viene rilasciata sulla base di dati che sono, sì, meno completi rispetto a quelli ordinari – cfr. 4° Considerando del Reg. CE 507/2006 – ma è appunto presidiata da particolari garanzie e condizionata a specifici obblighi in capo al richiedente.
25.5. Una volta adempiuti gli obblighi prescritti e forniti i dati mancanti, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata viene infatti convertita – ciò che diverse volte si è verificato in passato – in un’autorizzazione non condizionata.
25.6. Il bilanciamento, rispetto alla maggior completezza dei dati ottenuti nella procedura ordinaria di autorizzazione, è imposto e assicurato, nella previsione dell’art. 4 del Reg. (CE) n. 507/2006, da quattro rigorosi requisiti:
a) che il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulti positivo;
b) che sia probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi;
c) che il medicinale risponda a specifiche esigenze mediche insoddisfatte;
d) che i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari.
26. Per quanto riguarda i vaccini contro la diffusione del virus Sars-CoV-2, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata segue, a giudizio della Commissione, un quadro solido e controllato e fornisce valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini nel corso della campagna vaccinale, costituendo una componente essenziale della strategia dell’Unione in materia di vaccini, garanzie che distinguono nettamente questa ipotesi dalla c.d. “autorizzazione all’uso d’emergenza”, istituto diverso che, in alcuni Paesi (come gli Stati Uniti e l’Inghilterra) non autorizza un vaccino, ma l’uso temporaneo, per ragioni di emergenza, di un vaccino non autorizzato.
26.1. Tutti gli Stati membri dell’Unione hanno formalmente sottoscritto la strategia sui vaccini proposta dalla Commissione e hanno convenuto sulla necessità di applicare la procedura di autorizzazione all’immissione in commercio condizionata attraverso l’EMA per i vaccini contro il Sars-CoV-2.
26.2. I quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati dunque regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), di cui si è accennato in sintesi, disciplinata dall’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione.
26.3. Si tratta di un’autorizzazione che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, come si è detto, «a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari».
26.4. Il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sui profili di sicurezza del farmaco (nel sito dell’ISS, che richiama a sua volta quello dell’EMA, si ricorda «una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala») né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di «completare gli studi in corso o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole».
26.5. La CMA è, peraltro, uno strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica, come attesta il report disponibile sul sito istituzionale dell’EMA, relativo ai primi dieci anni di utilizzo della procedura, se si tiene presente che nel periodo di riferimento analizzato dal report – tra il 2006 e il 2016 – sono state concesse ben 30 autorizzazioni in forma condizionata, specialmente in ambito oncologico, nessuna delle quali successivamente ritirata per motivi di sicurezza, in quanto undici sono state convertite in autorizzazioni ordinarie, due ritirate per ragioni commerciali e le restanti diciassette sono rimaste ancora ad oggi autorizzazioni condizionate, essendo in corso il completamento dei dati.
27. Alla luce di queste necessarie, per quanto essenziali e sintetiche, premesse di carattere regolatorio-tecnico, che non concernono solo la normativa europea ma, per la intrinseca natura tecnica di questa, le stesse procedure di sperimentazione ammesse dalla comunità scientifica in base ai canoni fondamentali della c.d. medicina dell’evidenza (c.d. evidence based), soggette anche esse al controllo del giudice nazionale od europeo, a seconda dell’atto impugnato, nell’esercizio del sindacato sulla c.d. discrezionalità tecnica, si deve recisamente confutare e respingere l’affermazione secondo cui i vaccini contro il Sars-Cov-2 siano “sperimentali” – v., ad esempio, p. 80 del ricorso – come anche quella che mette radicalmente in dubbio la loro efficacia e/o la loro sicurezza, in quanto approvati senza un rigoroso processo di valutazione scientifica e di sperimentazione clinica che ne abbia preceduto l’ammissione.
27.1. Così non è, per tutte le ragioni di ordine scientifico esposte, perché la CMA è una procedura in cui la maggiore rapidità e la parziale sovrapposizione delle fasi di sperimentazione – nel gergo medico: fast track/partial overlap – consentono di acquisire dati sufficientemente attendibili, secondo i parametri proprî della medicina dell’evidenza, in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci, come dimostra proprio l’ampio ricorso a questa stessa procedura – ben 30 volte – nel decennio tra il 2006 e il 2016 con apprezzabili risultati, poi confermati, e l’autorizzazione condizionata si colloca pur sempre a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’ordinaria immissione in commercio di qualsiasi farmaco, senza che per questo ne vengano sminuite la completezza e la qualità dell’iter di ricerca e di sperimentazione.
27.2. La circostanza che i dati acquisiti nella fase di sperimentazione siano parziali e provvisori, come taluno ha rilevato anche sulla base delle condizioni imposte dal Reg. CE 507/2006 della Commissione, in quanto suscettibili di revisione sulla base delle evidenze empiriche via via raccolte – sicché l’autorizzazione è, appunto, condizionata all’acquisizione di più completi dati acquisiti successivamente all’autorizzazione stessa che, non a caso, ha durata solo annuale – nulla toglie al rigore scientifico e all’attendibilità delle sperimentazioni che hanno preceduto l’autorizzazione, pur naturalmente bisognose, poi, di conferma mediante i cc.dd. «comprehensive data post-authorisation».
27.3. L’AIFA, nello studio pubblicato sul proprio sito, ha chiarito che «gli studi che hanno portato alla messa a punto dei vaccini COVID-19 non hanno saltato nessuna delle fasi di verifica dell’efficacia e della sicurezza previste per lo sviluppo di un medicinale, anzi, questi studi hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di volontari, circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini».
27.4. Questi studi si sono avvalsi, peraltro, anche delle ricerche già condotte in passato sulla tecnologia a RNA messaggero (mRNA) e degli studi sui coronavirus umani correlati al Sars-CoV-2, come per esempio quelli che hanno provocato SARS (Severe acute respiratory syndrome) e MERS (Middle East respiratory syndrome)
27.5. Sul piano dell’efficacia, per quanto concerne i vaccini contro il Sars-Cov-2, avuto proprio riguardo ai dati aggiornati e più completi successivi alle autorizzazioni condizionate di essi, si deve osservare, secondo quanto deducono anche le Aziende Sanitarie appellate nelle loro memorie, come emergano significative evidenze dall’ultimo bollettino sull’andamento dell’epidemia emesso dall’ISS, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, istituzionalmente investito – tra le altre – delle funzioni di ricerca e controllo in materia di salute pubblica (art. 1 del relativo Statuto, approvato con D.M. del 24 ottobre 2014).
27.6. Il documento cui si fa riferimento, attraverso l’istruttoria informale eseguita da questo Collegio, è liberamente consultabile online, in quanto pubblico, presso il sito internet dell’ente e considera i dati relativi a tutti i casi di infezione da virus SARS-CoV-2 registrati nel periodo 4 aprile – 31 agosto 2021, confermati tramite positività ai test molecolari e antigenici.
27.7. Esso conclude riconoscendo che «l’efficacia preventiva è dell'89% nei confronti di una diagnosi di COVID-19 a circa sette mesi dopo la seconda dose» e che «per quanto riguarda i ricoveri in ospedale e i ricoveri in TI successivi a diagnosi di COVID-19 si è osservata una efficacia preventiva del 96% e nei confronti dei decessi del 99% a circa sei mesi dalla seconda dose».
27.8. Questo Collegio, con gli ovvi limiti del sindacato che spetta al giudice amministrativo sugli atti adottati dalle autorità e dagli enti sanitari nazionali nell’esercizio della loro discrezionalità tecnica (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 10 dicembre 2020, ord. n. 7097 nonché, più di recente, Cons. St., sez. III, 9 luglio 2021, n. 5212), deve perciò rilevare che, sulla base non solo degli studi – trials – condotti in fase di sperimentazione, ma anche dell’evidenza dei dati ormai imponenti acquisiti successivamente all’avvio della campagna vaccinale ed oggetto di costante aggiornamento e studio in sede di monitoraggio, che – contrariamente a quanto sostengono gli appellanti – la profilassi vaccinale è efficace nell’evitare non solo la malattia, per lo più totalmente o, comunque, nelle sue forme più gravi, ma anche il contagio.
27.9. Sempre nei limiti del sindacato qui consentito sull’attendibilità razionale degli studi e dei dati acquisiti si deve solo qui aggiungere, quanto al dubbio sollevato dagli appellanti in ordine alla capacità di evitare i contagi e, quindi, in termine di prevenzione della trasmissibilità della malattia da parte dei soggetti vaccinati, anche nella più recente ed estremamente contagiosa forma della variante “delta”, che la posizione della comunità scientifica internazionale, alla luce delle ricerche più recenti, è nel senso che la fase di eliminazione virale nasofaringea, nel gruppo dei vaccinati, è tanto breve da apparire quasi impercettibile, con sostanziale esclusione di qualsivoglia patogenicità nei vaccinati.
28. In punto di sicurezza, quanto all’inesistenza, per chi è sottoposto al trattamento, di conseguenze negative le quali vadano oltre la normalità e la tollerabilità, si deve muovere anzitutto dal presupposto scientifico di ordine generale secondo cui il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato del tutto esente da rischi.
28.1. Il giudizio in questione deve dunque vertere, propriamente, sui profili di sicurezza dei quattro vaccini contro il Sars-CoV-2 disponibili sul mercato e, correttamente ed esclusivamente, sul favorevole rapporto costi/benefici della loro somministrazione su larga scala.
28.2. Il monitoraggio costante di questi aspetti compete al sistema di farmacovigilanza, cui è preposta l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), che raccoglie e valuta tutte le segnalazioni di eventi avversi.
28.3. Quanto, in particolare, alla farmacovigilanza sui vaccini contro il Sars-CoV-2, l’ultimo rapporto ad oggi disponibile (il nono, pubblicato il 12 ottobre 2021 sul sito dell’AIFA, la quale ha preannunciato che l’aggiornamento del monitoraggio, di qui in avanti, sarà trimestrale), espone i dati aggiornati al 26 settembre 2021 e ricavati dalla somministrazione di 84.010.605 dosi di vaccino in Italia.
28.4. Gli eventi avversi – e, cioè, gli episodi sfavorevoli verificatisi dopo la somministrazione, a prescindere dalla riconducibilità alla stessa dal punto di vista causale – sono stati 101.110, con un tasso di segnalazione – misura del rapporto fra il numero di segnalazioni inserite nel sistema di farmacovigilanza e numero di dosi somministrate – pari a 120 ogni 100.000 dosi.
28.5. Di queste, solo il 14,4% ha avuto riguardo ad eventi gravi, con la precisazione che ricadono in tale categoria, definita in base a criteri standard, conseguenze talvolta non coincidenti con la reale gravità clinica dell’evento, mentre l’85,4% si riferisce a eventi non gravi, come dolore in sede di iniezione, febbre, astenia/stanchezza, dolori muscolari.
28.6. Di tutte le segnalazioni gravi (17 ogni 100.000 dosi somministrate) solo il 43% di quelle esaminate finora è risultata correlabile alla vaccinazione.
28.7. Si tratta di dati comparabili a quelli emersi in esito all’attività di farmacovigilanza condotta sugli altri vaccini esistenti (alcuni dei quali già oggetto di somministrazione obbligatoria ai sensi del d.l. n. 73 del 2017), che sono parimenti consultabili sul sito dell’AIFA, nello specifico rapporto pubblicato.
29. Quanto sin qui si è esposto, in estrema sintesi, conferma che le terapie vaccinali regolarmente approvate, nei termini di cui si è detto, e in uso attualmente in Italia, come in Europa e nel resto del mondo (ove, tra l’altro, alcuni vaccini sono stati approvati in via definitiva: negli Stati Uniti la FDA, la Food and drug administration, istituzione che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici, ad esempio, ha approvato in via definitiva il 23 agosto 2021 il vaccino Comirnaty per le persone di età maggiore a 16), presentano per i soggetti ai quali sono inoculate un rapporto rischio/beneficio favorevole che, allo stato delle conoscenze scientifiche, delle sperimentazioni eseguite, degli studi clinici e dei dati disponibili, non è dissimile da quella dei vaccini tradizionali, alcuni delle quali rese obbligatorie, come noto, dal d.l. n. 73 del 2017, sulla cui legittimità costituzionale, come si dirà tra breve, si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018.
29.1. Le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile e i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi gravi e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica.
29.2. I dati relativi alla drastica riduzione di contagi, ricoveri e decessi, ad oggi disponibili e resi di pubblico dominio dalle istituzioni e dagli enti sanitari, dimostrano sul piano epidemiologico che la vaccinazione – unitamente alle altre misure di contenimento – si sta dimostrando efficace, su larga scala, nel contenere il contagio e nel ridurre i decessi o i sintomi gravi.
30. Anche l’altro presupposto da cui muovono gli appellanti, quello di ordine schiettamente giuridico, è privo di fondamento.
30.1. Nell’odierna situazione emergenziale, almeno fino al 31 dicembre 2021, le misure per il contenimento del contagio richiedono alle autorità sanitarie un intervento pronto e risoluto, ispirato alla c.d. amministrazione precauzionale, la quale deve necessariamente misurarsi con quello che, in dottrina, è stato definito il c.d. ignoto irriducibile, in quanto ad oggi non si dispone di tutti i dati completi per valutare compiutamente il rapporto rischio/beneficio nel lungo periodo, per ovvi motivi, e questa componente, appunto, di ignoto irriducibile, pur con il massimo – ed encomiabile – sforzo profuso dalla ricerca scientifica, reca con sé l’impossibilità di ricondurre una certa situazione fattuale, interamente, entro una logica di previsione ex ante fondata su elementi di incontrovertibile certezza.
30.2. Per i tempi necessari alla sperimentazione, di fronte all’esigenza immediata di intervento, la scienza ad oggi non è ovviamente in grado di fornire certezze assolute circa la totale assenza di rischi anche a lungo termine connessa all’assunzione dei vaccini, ma il legislatore, in una situazione pandemica che vede il diffondersi di un virus a trasmissione aerea, altamente contagioso e spesso letale per i soggetti più vulnerabili per via di malattie pregresse – si pensi ai pazienti cardiopatici, diabetici od oncologici – e dell’età avanzata, ha il dovere di promuovere e, se necessario, imporre la somministrazione dell’unica terapia – quella profilattica – in grado di prevenire la malattia o, quantomeno, di scongiurarne i sintomi più gravi e di arrestare o limitarne fortemente il contagio.
30.3. L’autorizzazione condizionata dei quattro vaccini, come si è detto, fornisce sufficienti garanzie circa la loro efficacia e sicurezza, sulla base degli studi eseguiti e delle conoscenze acquisite, e si struttura sul modello della c.d. amministrazione precauzionale riflessiva, in quanto caratterizzata dalla flessibilità dell’azione pubblica e dalla capacità di incorporare la mutevole contingenza, nell’ottica di una continua ridefinizione degli obiettivi e di un continuo monitoraggio.
30.4. La riserva di scienza, alla quale il decisore pubblico sia livello normativo che amministrativo deve fare necessario riferimento nell’adottare le misure sanitarie atte a fronteggiare l’emergenza epidemiologica, lascia a questo, per l’inevitabile margine di incertezza che contraddistingue anche il sapere scientifico nella costruzione di verità acquisibili solo nel tempo, a costo di severi studi e di rigorose sperimentazioni e sottoposte al criterio di verificazione-falsificazione, un innegabile spazio di discrezionalità nel bilanciamento tra i valori in gioco, la libera autodeterminazione del singolo, da un lato, e la necessità di preservare la salute pubblica e con essa la salute dei soggetti più vulnerabili, dall’altro, una discrezionalità che deve essere senza dubbio usata in modo ragionevole e proporzionato e, in quanto tale, soggetta nel nostro ordinamento a livello normativo al sindacato di legittimità del giudice delle leggi e a livello amministrativo a quello del giudice amministrativo.
30.5. E tuttavia l’argomento degli appellanti, secondo cui, in assenza di una certezza assoluta offerta dalla scienza circa la sicurezza dei vaccini anche nel lungo periodo il legislatore dovrebbe lasciare sempre e comunque l’individuo libero di scegliere se accettare o meno il trattamento sanitario e, dunque, di ammalarsi e contagiare gli altri, prova troppo ed è errato, già sul piano epistemologico, perché, così ragionando, l’utilizzo obbligato di una nuova terapia, in una fase emergenziale che vede il crescere esponenziale di contagi e morti, dovrebbe attendere irragionevolmente un tempo lunghissimo e, potenzialmente, indefinito per tutte le possibili sperimentazioni cliniche necessarie a scongiurare il rischio, anche remoto (o immaginabile e persino immaginario) di tutti i possibili eventi avversi, tempo nel quale, intanto, la malattia continuerebbe incontrastata a mietere vittime senza alcuna possibilità di una cura che, seppure sulla base di dati non ancora completi, ha mostrato molti più benefici che rischi per la collettività.
30.6. Sarebbe, tuttavia, questa una conseguenza paradossale che, nel rivendicare la sicurezza ad ogni costo, e con ogni mezzo, della cura imposta dal legislatore a beneficio di tutti, ne negherebbe però in radice ogni possibilità, paralizzando l’intervento benefico, per non dire salvifico, della legge o dell’amministrazione sanitaria contro il contagio di moltissime persone, perché, come ha osservato la Corte costituzionale – in riferimento alla normativa che introduceva la vaccinazione obbligatoria contro l’epatite virale di tipo B, impugnata anche per la omessa previsione di accertamenti preventivi idonei quantomeno a ridurre il rischio, pur percentualmente modesto, di lesioni all’integrità psicofisica per le complicanze del vaccino – «la prescrizione indeterminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie» renderebbe «di fatto impossibile o estremamente complicata e difficoltosa la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari» (Corte cost., 23 giugno 1994, n. 258).
30.7. In fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante, drammatico, indifferibile di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all’ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l’utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata, che però ha seguito – va ribadito – tutte le quattro fasi della sperimentazione richieste dalla procedura di autorizzazione), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco.
30.8. E ciò non perché, come afferma chi enfatizza e assolutizza l’affermazione di un giusto valore concepito però come astratto bene, la persona receda a mezzo rispetto ad un fine o, peggio, ad oggetto di sperimentazione, in contrasto con il fondamentale principio personalista, a fondamento della nostra Costituzione, che vede nella persona sempre un fine e un valore in sé, quale soggetto e giammai oggetto di cura, ma perché si tutelano in questo modo tutti e ciascuno, anzitutto e soprattutto le più vulnerabili ed esposte al rischio di malattia grave e di morte, da un concreto male, nella sua spaventosa e collettiva dinamica di contagio diffuso e letale, in nome dell’altrettanto fondamentale principio di solidarietà, che pure sta a fondamento della nostra Costituzione (art. 2), la quale riconosce libertà, ma nel contempo richiede responsabilità all’individuo.
30.9. E in un ordinamento democratico la legge non è mai diritto dei meno vulnerabili o degli invulnerabili, o di quanti si affermino tali e, dunque, intangibili anche in nome delle più alte idealità etiche o di visioni filosofiche e religiose, ma tutela dei più vulnerabili, dovendosi rammentare che la solidarietà è «la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione» (Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75).
31. Il margine di incertezza dovuto al c.d. ignoto irriducibile che la legge deve fronteggiare in un’emergenza pandemica tanto grave, per tutte le ragioni esposte, non può dunque giustificare, né sul piano scientifico né sul piano giuridico, il fenomeno della esitazione vaccinale, ben noto anche all’Organizzazione Mondiale della Sanità, proprio nei medici e nel personale sanitario.
31.1. La vaccinazione obbligatoria selettiva introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per il personale medico e, più in generale, di interesse sanitario risponde ad una chiara finalità di tutela non solo – e anzitutto – di questo personale sui luoghi di lavoro e, dunque, a beneficio della persona, secondo il già richiamato principio personalista, ma a tutela degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, secondo il pure richiamato principio di solidarietà, che anima anch’esso la Costituzione, e più in particolare delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza.
31.2. La ratio di questa specifica previsione si rinviene non solo nelle premesse del d.l. n. 44 del 2021, laddove si evidenzia «la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per garantire in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette al contenimento dell’epidemia e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica, con riferimento soprattutto alle categorie più fragili, anche alla luce dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche acquisite per fronteggiare l’epidemia da COVID-19 e degli impegni assunti, anche in sede internazionale, in termini di profilassi e di copertura vaccinale», ma nello stesso testo normativo dell’art. 4, quando nel comma 4 richiama espressamente il «fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» o precisa ancora, nel comma 6, che «l’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2».
31.3. La previsione interseca non solo il più generale e grave problema della sicurezza nei luoghi di lavoro a tutela dei lavoratori, disciplinata dal d. lgs. n. 81 del 2008, ma anche – e ciò rileva particolarmente in questo giudizio – il principio di sicurezza delle cure, enunciato tra l’altro dalla l. n. 24 del 2017 (c.d. legge Gelli-Bianco), laddove, nell’art. 1, comma 1, afferma solennemente il principio secondo cui la sicurezza delle cure è «parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività».
31.4. La sicurezza delle cure, precisa il comma 2, si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative.
31.5. Aggiunge il comma 3 del richiamato art. 1 che le attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale.
31.6. Ora proprio in ragione di questo generale principio, che precede l’attuale emergenza epidemiologica ed implica la sicurezza anche di chi cura e del luogo di cura oltre che del come si cura, è lecito attendersi dal paziente bisognoso di cura e assistenza, che si rechi in una struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, ed è doveroso per l’ordinamento pretendere che il personale medico od infermieristico non diventi esso stesso veicolo di contagio, pur sussistendo un rimedio, efficace e sicuro, per prevenire questo rischio connesso all’erogazione della prestazione sanitaria.
31.7. Sarebbe – e in taluni casi verificatisi in Italia a vaccinazione già avviata, purtroppo, è stato – un macabro paradosso quello per i quali pazienti gravemente malati o anziani, ricoverati in strutture ospedaliere o in quelle residenziali, socio-assistenziali o socio-sanitarie (al cui personale lavorativo anche esterno, opportunamente, il recente art. 2, comma 1, del d.l. n. 122 del 10 settembre 2021 ha infatti esteso l’obbligo vaccinale, inserendo nel d.l. n. 44 del 2021 l’art. 4-bis), contraessero il virus, con effetti letali per essi, proprio nella struttura deputata alla loro cura e per causa del personale deputato alla loro cura, refrattario alla vaccinazione.
31.8. Una simile evenienza, che il legislatore ha voluto scongiurare introducendo, come si è detto, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, costituirebbe (ed ha costituito) un grave tradimento di quella «relazione di cura e fiducia tra paziente e medico» e, più in generale, tra paziente e gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria, un ripudio dei valori più essenziali che la medicina deve perseguire e l’ordinamento deve difendere, a cominciare dalla solidarietà, concetto, questo, spesso dimenticato, come taluno ha osservato, in una prospettiva esasperatamente protesa solo a rivendicare diritti incomprimibili.
31.9. Tale relazione di cura e di fiducia, secondo l’art. 1, comma 2, della l. n. 219 del 2017, è il fulcro della prestazione sanitaria e si fonda sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico, responsabilità non secondaria né trascurabile nella tutela del paziente che viene a contatto con lo stesso medico e il personale sanitario.
32. Nel dovere di cura, che incombe al personale sanitario, rientra anche il dovere di tutelare il paziente, che ha fiducia nella sicurezza non solo della cura, ma anche nella sicurezza – qui da intendersi come non contagiosità o non patogenicità – di chi cura e del luogo in cui si cura, e questo essenziale obbligo di protezione di sé e dell’altro, connesso al dovere di cura e alla relazione di fiducia, non può lasciare il passo, evidentemente, a visioni individualistiche ed egoistiche, non giustificate in nessun modo sul piano scientifico, del singolo medico che, a fronte della minaccia pandemica, rivendichi la propria autonomia decisionale a non curarsi.
33. Questa scelta, che sarebbe in una condizione di normalità sanitaria del tutto legittima perché espressione della libera autodeterminazione e del consenso informato, di cui alla l. n. 219 del 2017, appena richiamato, costituisce nel contesto emergenziale in atto un rischio inaccettabile per l’ordinamento perché mette a repentaglio la salute e la vita stessa di altri – le persone più fragili, anzitutto – che, di fronte all’elevata contagiosità della malattia, potrebbero subirne e ne hanno subito le conseguenze in termini di gravità o addirittura mortalità della malattia.
34. Nel bilanciamento tra i due valori, quello dell’autodeterminazione individuale e quello della tutela della salute pubblica, compiuto dal legislatore con la previsione dell’obbligo vaccinale nei confronti del solo personale sanitario, non vi è dunque legittimo spazio né diritto di cittadinanza in questa fase di emergenza contro il virus Sars-CoV-2 per la c.d. esitazione vaccinale.
35. L’obbligatorietà della vaccinazione è una questione più generale che, oltre ad implicare un delicato bilanciamento tra fondamentali valori, quello dell’autodeterminazione e quello della salute quale interesse della collettività anzitutto secondo una declinazione solidaristica, investe lo stesso rapporto tra la scienza e il diritto, come è ovvio che sia, e ancora più al fondo il rapporto tra la conoscenza – e, dunque, l’informazione e il suo contrario, la disinformazione – e la democrazia.
32.3. In un ordinamento democratico, come ha rilevato anche di recente la Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018 sulle vaccinazioni obbligatorie (re)introdotte dal d.l. n. 73 del 2017, rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere la raccomandazione dei vaccini o l’obbligatorietà di questi e la scelta tra la tecnica della persuasione e, invece, quella dell’obbligo dipende dal grado di efficacia persuasiva con il quale il legislatore, sulla base delle acquisizioni scientifiche più avanzate ed attendibili, riesce a sensibilizzare i cittadini in ordine alla necessità di vaccinarsi per il bene proprio e, insieme, dell’intera società.
32.4. La Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza (v., tra tutte, proprio la sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, ma anche la sentenza n. 258 del 23 giugno 1994, già richiamata, e la sentenza n. 307 del 22 giugno 1990), ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.
32.5. Tutte queste condizioni, come si dirà meglio nell’esame delle singole questioni di costituzionalità proposte dagli appellanti, sono rispettate dalla vaccinazione obbligatoria ora introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.
32.6. I valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono certo molteplici e il contemperamento di questi molteplici principî lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo, al fine di raggiungere, mediante la vaccinazione di massa, l’obiettivo della c.d. immunità di gregge.
32.7. Questa discrezionalità, ha chiarito peraltro la Corte, deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 14 dicembre 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (così la giurisprudenza costante della stessa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002), secondo quel modello, di cui si è detto, dell’amministrazione precauzionale c.d. riflessiva, dal carattere adattivo e flessibile e in base alla riserva di scienza.
33. La storia delle vaccinazioni obbligatorie in Italia mostra come, per ragioni complesse, il pendolo legislativo abbia oscillato tra la raccomandazione e l’obbligo, anche a fronte del crescente fenomeno della c.d. esitazione vaccinale (vaccine hesitancy), fenomeno manifestatosi fin sin dall’introduzione, nel Settecento, delle prime terapie vaccinali contro il vaiolo ed oggetto di studio, ormai da anni, da parte del gruppo di esperti Sage (Strategic Advisory Group of Experts on Immunization) nominato nel 2012 dall’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità.
33.1. In Italia questo fenomeno, diffuso come nel resto dell’Occidente, ha fatto registrare una forte riduzione delle vaccinazioni obbligatorie e ha aperto così le porte ad estese epidemie di morbillo, facendo precipitare l’Italia nel 2013 ben al di sotto della soglia di sicurezza raccomandata dall’OMS nel 95%, e solo l’intervento del d.l. n. 73 del 2017 ha poi portato ad un aumento della copertura non solo per la vaccinazione anti morbillo-parotite-rosolia, ma anche per i vaccini non obbligatori e per tutti i gruppi di età.
33.2. La trasparenza delle informazioni scientifiche, le campagne di sensibilizzazione, le “spinte gentili” – c.d. nudge – alla vaccinazione, mediante un sistema di incentivi o disincentivi, come mostra il recente indirizzo dell’economia comportamentale, sono tutti elementi di sicuro impatto, e spesso di forte incidenza anche sulle libertà costituzionalmente garantite, che tuttavia concorrono a favorire il consenso informato nei singoli nelle decisioni sanitarie e, insieme, il formarsi di una coscienza collettiva favorevoli alla necessità di vaccinarsi e di una profilassi generalizzata contro malattie altamente contagiose e non di rado mortali, creando nei cittadini fiducia (c.d. confidence) nella sicurezza e nell’efficacia dei vaccini.
33.3. La formazione del consenso informato in ciascuno e l’adesione convinta dei più alla vaccinazione, sulla base delle informazioni rese disponibili dalla comunità scientifica e all’esito di un serena valutazione circa il rapporto tra rischi e benefici della vaccinazione all’interno della comunità e delle istituzioni democratiche, costituiscono certo la soluzione migliore e preferibile per combattere la malattia perché esaltano, da un lato, il ruolo di una scienza non richiusa in sé, nell’idolatria di un elitario scientismo, ma aperta al dibattito civile e partecipe al progresso morale e materiale dell’intera società e, dall’altro, valorizzano il fondamentale ruolo dell’autodeterminazione in sintonia, e non già in conflitto, con il principio di solidarietà.
34. Sotto questo profilo «la luce della trasparenza», tanto nelle acquisizioni scientifiche degli esperti quanto nei processi decisionali del legislatore (o dell’amministrazione), «feconda il seme della conoscenza tra i cittadini», come ha ricordato in via generale la recente pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio (Cons. St., Ad. plen., 10 aprile 2020, n. 10), stroncando il diffondersi di pseudoconoscenze o, addirittura, di credenze irrazionali e, perciò, indimostrabili ma al tempo stesso infalsificabili, e contribuisce al rafforzamento, in modo pieno e maturo, dei diritti fondamentali nel loro esercizio ponderato e responsabile.
34.1. Il consenso informato, che ha un’essenziale funzione di sintesi tra l’autodeterminazione e il diritto alla salute (v., in questo senso, Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 438 e Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n.4460, ma si consideri ora anche la già ricordata, e basilare, previsione dell’art. 1, comma 2, della l. n. 219 del 2017), è e dovrebbe essere la dimensione fisiologica e privilegiata, l’orizzonte normale e consueto entro il quale dovrebbe iscriversi qualsiasi campagna vaccinale, anche quella in corso contro il Sars-CoV-2, e dovrebbe condurre ad un atteggiamento, consapevole e responsabile, di adesione volontaria alla campagna vaccinale a beneficio di tutti e di ciascuno.
34.2. L’elevatissima adesione volontaria alle vaccinazioni in Italia, al di là delle motivazioni dei singoli, lascia intravedere che tra i cittadini questo esercizio ponderato e responsabile della loro autonomia decisionale sulla base del consenso informato, mediante lo strumento della persuasione nelle sue più varie forme, non ha costituito un obiettivo irraggiungibile, ma tangibile, e nondimeno rispetto alle vaccinazioni contro la diffusione del Sars-CoV-2, come per le altre vaccinazioni nel più recente passato, si è registrato quel fenomeno tipico delle contemporanee societés de la défiance, le società del sospetto, in cui i cittadini sembrerebbero o si sentirebbero “condannati”, come taluno ha detto, a “fidarsi della scienza”.
34.3. La c.d. esitazione vaccinale ha un genesi multifattoriale, comprende i più vari atteggiamenti ideologici, culturali, religiosi, filosofici, ma non di rado è il frutto, da un lato, di una irrazionale sfiducia nei confronti della scienza e, più in generale, dei “tecnici”, portatori di un sapere specialistico, avvertiti come titolari di un potere ritenuto inaccessibile e, in quanto tale, elitario ed antidemocratico (“nam et ipsa scientia potestas est”, “sapere è potere”, secondo l’antica massima baconiana), con il rifiuto di un sapere-potere “costituito” e la ricerca di conoscenze altre, alternative, nascoste ai più, e, dall’altro, anche il portato di una visione icasticamente definita “onnivora” dell’autodeterminazione, assoluta e solipstica, insofferente di vincoli ed obblighi che contemplino la visione più vasta dell’intero ordinamento e degli altri individui, secondo, invece, una fondamentale e doverosa declinazione solidaristica.
34.4. Non è possibile indagare e indugiare sulla complessità di questo fenomeno se non per rimarcare, in questa sede e ai fini che qui rilevano, che il superamento dell’esitazione vaccinale proprio in alcuni operatori sanitari, mediante lo strumento della persuasione, avrebbe richiesto tempi, modi e mezzi, di fronte all’emergenza epidemiologica in atto e all’assenza di terapie sicure ed efficacia al di là dei vaccini, che solo l’introduzione di un obbligo vaccinale poteva fronteggiare nelle strutture sanitarie obbligate ad assicurare anche e anzitutto la sicurezza delle cure, tutelando la salute dello stesso personale sanitario, impegnato in prima linea nella lotta contro la nuova malattia, e quella dei pazienti e delle persone più fragili e, in generale, della collettività dalla rapida diffusione del contagio ed evitando quelle situazioni gravi, paradossali e irreversibili, di cui si è detto, nondimeno verificatesi con numerosi contagi e decessi in diverse strutture sanitarie e residenziali proprio per la resistenza immotivata alla vaccinazione da parte del personale sanitario.
34.5. Questo Consiglio di Stato, nel quadro dei valori costituzionali, ha sempre rifiutato una concezione autoritaria e impositiva della cura, calata dall’alto e imposta alla singola persona (v., in questo senso, Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460), e ha sempre rimarcato e difeso la sfera inviolabile della persona nell’autodeterminazione terapeutica, poiché il fine, ma anche il limite di ogni trattamento sanitario, anche obbligatorio, è sempre il «rispetto della persona umana», come prevede il secondo periodo del secondo comma dell’art. 32 Cost., con una previsione di chiusura che illumina il senso del complesso, e complessivo, equilibrio sul quale poggia la salute, quale situazione giuridica soggettiva “ancipite”, bifronte, diritto fondamentale del singolo e, insieme, interesse della collettività.
34.6. Ma dall’altro lato questo Consiglio di Stato ha messo in guardia, nel riconoscere la legittimità, a date condizioni (di cui si è detto), dell’intervento autoritativo nella forma del c.d. biopotere, a tutela della salute pubblica quale interesse della collettività, e con esso le vaccinazioni obbligatorie fra i trattamenti sanitari imposti ai sensi dell’art. 32, comma secondo Cost., da una visione opposta, assolutizzante, unidirezionale e riduttivistica, altrettanto contraria alla Costituzione, del diritto alla salute come appannaggio esclusivo dell’individuo, insensibile al benessere della collettività e al già richiamato principio della solidarietà a tutela dei più fragili (v., in particolare, il parere n. 2065 del 26 settembre 2017 della Commissione speciale di questo Consiglio sulle vaccinazioni introdotte dal d.l. n. 73 del 2017).
35. È nel quadro di queste preliminari, indispensabili, considerazioni di sistema, dunque, che si può passare all’esame delle dieci censure qui riproposte dagli odierni appellanti, censure, come ora si dirà in sintesi, tutte infondate.
36. Con la prima censura (pp. 61-65 del ricorso), anzitutto, gli odierni appellanti lamentano che l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, nel prevedere la vaccinazione obbligatoria con le drastiche conseguenze sanzionatorie ivi configurate nel comma 6, in caso di ingiustificata sottrazione all’obbligo, sull’esercizio della professione e sulla percezione del compenso, violerebbe quanto stabilito dall’art. 3 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, secondo cui «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica» e nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge.
36.1. Parimenti sarebbe violato l’art. 52 della Carta che, nel consentire, nel rispetto del principio di proporzionalità, limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui, prescrive che tali limitazioni siano previste dalla legge e rispettino, comunque, il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà tutelati dalla Carta e comunque, nel par. 3, prevede che «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono eguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione».
36.2. La violazione della Carta sarebbe evidente anche sotto tale ultimo profilo perché l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel sancire il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, vieta ogni ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui, mentre la giurisprudenza della Corte EDU sarebbe costante nell’affermare che la vaccinazione obbligatoria costituisce una intromissione non consentita nella vita familiare e privata.
36.3. Nel caso in esame, l’obbligo vaccinale imposto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 contrasterebbe con il diritto dell’Unione e con quello convenzionale, così come declinato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, imponendo un eccessivo sacrificio con il diritto alla salute del singolo, costretto a subire danni e rischi non predeterminati, addirittura ignoti, e con riferimento a quelli noti sicuramente gravi e irreversibili, tanti da giungere fino alla morte.
36.4. Lo stesso Consiglio d’Europa, con la risoluzione dell’Assemblea parlamentare del 27 gennaio 2021, ha fortemente esortato gli Stati membri e l’Unione europea «to ensure that citizens are informated that the vaccination is not mandatory and that no one is under political, social or other pressure to be vaccinated if they do not wish to do so».
36.5. Gli appellanti chiedono pertanto che il giudice, stante il chiaro contrasto dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 con il diritto dell’Unione nei sensi appena chiariti, disapplichi la normativa nazionale e, con essa, gli illegittimi provvedimenti qui contestati.
36.6 Vi è ragione anzitutto di dubitare che l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione sia applicabile in una materia come questa, inerente all’intervento sanitario delle autorità nazionali e, nello specifico, alle vaccinazioni obbligatorie, che non rientra propriamente ed «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», come prevede l’art. 51 della Carta stessa nel fissare i limiti della propria applicazione, ma è riservata alla discrezionalità dei singoli Stati seppure nel coordinamento, quanto alla profilassi internazionale (art. 117, comma secondo, lett. q), Cost.), con il diritto e le istituzioni dell’Unione per l’uniforme attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale – v., sul punto, Corte cost., 12 marzo 2021, n. 37 – perché tanto la Corte di Giustizia UE – v., ex plurimis, Corte di Giustizia UE, 5 ottobre 2010, in C-400/10 ed ead., 28 novembre 2019, in C-653/19 – quanto la Corte costituzionale – v., ex plurimis, la sentenza dell’11 marzo 2011, n. 80 – hanno più volte ribadito che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione può essere invocata come parametro di costituzionalità soltanto nel caso in cui la fattispecie, oggetto di legislazione interna, sia disciplinata da una norma del diritto europeo diversa da quelle della Carta e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.
36.7. Per altro verso la qui invocata disapplicazione della norma nazionale, del resto, si scontrerebbe, nell’ipotesi – quod non est – di antinomia rispetto alla Carta, con la impossibilità, per il giudice nazionale, di disapplicare la normativa nazionale contrastante con la Carta dei diritti fondamentali per il costante l’orientamento della Corte costituzionale, che afferma invece la necessità di rimettere la questione alla stessa Corte nell’ipotesi in cui il contrasto investa il rapporto tra normativa nazionale e la Carta, evitando un controllo di costituzionalità diffuso, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla Carta dei diritti «siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali» (Corte cost., 20 dicembre 2017, n. 269 nonché, più di recente, Corte cost., 21 febbraio 2019, n. 20).
36.7. Anche prescindendo da questi preliminari rilievi variamente evidenziati nelle loro difese dalle Aziende Sanitarie appellate, e venendo al merito della censura, si deve rilevare che la sicurezza e l’efficacia dei vaccini in uso, giova ripeterlo ancora una volta, sono state accertate in sede di autorizzazione condizionata, all’esito di rigorose procedure rispettose di tutti gli standard di ricerca e di sperimentazione condivisi dalla comunità scientifica internazionale, e non vi è ragione alcuna né gli appellanti hanno addotto, con la genericità delle loro deduzioni, validi e documentati argomenti confutativi per ritenere che il sacrificio imposto ad essi, con la vaccinazione obbligatoria, sia eccessivo, sproporzionato, nella doverosa valutazione scientifica del rapporto tra rischi e benefici e, comunque, che questo rischio, per quanto sconti, come si è più volte precisato, un margine di c.d. ignoto irriducibile (insito, nel resto, nell’utilizzo di un qualsivoglia farmaco), non rientri nella media, tollerabile, degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni.
37. È fuor di luogo – al di là della impossibilità, per il giudice nazionale, di disapplicare direttamente una norma nazionale contrastante con la Convenzione – anche il richiamo all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto l’art. 8 della Convenzione, contrariamente a quanto assumono gli appellanti, consente invece l’ingerenza pubblica nella sfera privata e familiare a precise rigorose condizioni, fissate dalla più recente giurisprudenza della Corte EDU intervenuta proprio in materia di vaccinazioni obbligatorie, e che sono ampiamente rispettate, a giudizio del Collegio, nel caso di specie, in quanto essa persegue una finalità di un interesse pubblico, il contenimento del contagio, per la tutela della società democratica, a tutela dei soggetti più fragili, di fronte ad una pandemia di carattere globale e alla minaccia di un virus a trasmissione aerea particolarmente pericoloso per i soggetti più vulnerabili, affetti già da altre malattie o anziani, mediante la somministrazione di un vaccino sulla cui efficacia e sicurezza si registra il general consensus della comunità scientifica.
37.1. A questo riguardo si deve ricordare che proprio la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella recente e significativa sentenza Vavřička e altri c. Repubblica Ceca dell’8 aprile 2021 emessa dalla Grande Camera in ric. n. 47621/13, n. 3867/14, n. 73094/14, n. 19306/15, n. 19298/15 e n. 43883/1, ha ritenuto che le nove vaccinazioni obbligatorie introdotte nella Repubblica Ceca – in quel caso a tutela dei minori– possono costituire, ai sensi dell’art. 8 della CEDU, una legittima interferenza nel diritto al rispetto della vita privata quando vi sia una base legale, uno scopo legittimo ed esse siano necessarie in una società democratica per garantire, tra l’altro, il principio di solidarietà, che consiste nell’esigenza di proteggere tutti i membri della società e, in particolare, quelli che sono più vulnerabili, a tutela dei quali si chiede al resto della popolazione di assumersi un “minimo rischio” sotto forma di vaccinazione (v., in particolare, §§ 279 e 306 della sentenza).
37.2. La Corte afferma che l’ingerenza nella vita privata, che l’obbligo vaccinale sicuramente realizza, può giustificarsi ove – oltre ad essere previsto per legge – persegua un obiettivo legittimo (legitimate aim) ai sensi della Convenzione, senz’altro rinvenibile nella protezione della salute collettiva e in particolare di quella di chi si trovi in stato di particolare vulnerabilità (§ 272).
37.3. Quanto al requisito costituito della necessità della misura in una società democratica (necessity in a democratic society), da valutarsi in concreto accertando l’esistenza di un pressante bisogno sociale (pressing social need), di ragioni rilevanti e sufficienti a supporto della scelta (relevant and sufficient reasons) e del rispetto del principio di proporzionalità (proportionality), la Corte giunge a conclusioni ugualmente positive.
37.4. Il bisogno sociale deriva dalla consapevolezza che la vaccinazione infantile è una misura chiave nelle politiche di salute pubblica (§ 281); la rilevanza e sufficienza delle ragioni è affermata in considerazione della rispondenza della vaccinazione obbligatoria al miglior interesse, nel caso esaminato dalla Corte, dei bambini (§ 288); infine, la proporzionalità, è garantita – oltre che dalle garanzie specifiche del procedimento che presiede alla somministrazione – dalla riconosciuta efficacia e sicurezza dei vaccini, a condizione che ciascuna somministrazione sia preceduta da un’anamnesi individuale e sia previsto un meccanismo compensativo per gli eventuali danni.
37.5. Di particolare rilievo e interesse è il passaggio della sentenza – v., in particolare, § 300 – in cui la Corte giustifica la scelta della Repubblica Ceca di rendere obbligatori taluni vaccini alla luce del general consensus della comunità scientifica sull’efficacia e sicurezza di questi ultimi («the Court refers once again to the general consensus over the vital importance of this means of protecting populations against diseas that may have severe effects on individual health, and that, in the case of serious outbreaks, may cause disruption to society».
37.6. Non corrisponde dunque al vero la tesi, sostenuta dagli appellanti, che il diritto convenzionale ritenga le vaccinazioni obbligatorie una inammissibile intromissione nel diritto al rispetto della sfera privata e familiare, in violazione dell’art. 8 della Convenzione, poiché anche la più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in armonia con l’orientamento assunto, del resto, dalle Corti costituzionali nazionali, ammette la legittimità delle vaccinazioni obbligatorie secondo principî e criterî, non dissimili da quelli seguiti dalla Corte costituzionale italiana nella propria giurisprudenza, che possono trovare applicazione anche alla vaccinazione qui contestata, che soddisfa tutti i requisiti, rigorosi, richiesti dal diritto convenzionale per giustificare l’intromissione pubblica nella sfera privata e familiare.
37.7. Né devono essere enfatizzate le espressioni con cui l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, peraltro con una raccomandazione che non è vincolante sul piano giuridico per gli Stati, ha raccomandato – e non certo imposto – nella risoluzione n. 2361/2021 la non obbligatorietà dei vaccini, perché l’affermazione citata e estrapolata dagli appellanti dal testo della raccomandazione si lega saldamente, invece, proprio alla finalità – punto 7.3 – di assicurare un’alta diffusione del vaccino – «with respect to ensuring high vaccine uptake» – anche adottando – punto 7.3.3 – «effective measures to counter misinformation, disinformation and hesitancy regarding Covid-19 vaccinead e, cioè, misure efficaci a contrastare la cattiva informazione, la disinformazione e l’esitazione vaccinale ed evitare, appunto, quell’atteggiamento di opposizione, presente o latente nelle contemporanee societés de la défiance dell’Occidente, che potrebbe essere aggravato e non certo evitato dall’obbligatorietà della vaccinazione.
37.8. In questa prospettiva, come pure questo Collegio ha già chiarito sopra in conformità all’orientamento della Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, la raccomandazione, per la sua spinta “gentile”, accompagna e favorisce lo sviluppo dell’autodeterminazione, benché anche questa spinta incida anch’essa in profondità sul processo formativo del volere nel consenso informato, senza la costrizione e l’extrema ratio dell’obbligo, aumenta la fiducia dei cittadini nella scienza e nell’intervento pubblico, ma – come pure ha notato la Corte – in ambito medico dalla raccomandazione all’obbligo il passo è breve, sicché non è precluso perciò al legislatore, per assicurare la maggior copertura vaccinale possibile, in vista della c.d. immunità di gregge, e arginare la diffusione del contagio e l’aumento incontrollabile e irrimediabile di malati e morti, soprattutto tra i soggetti più fragili, ove il convincimento anche insistito e modulato nelle più varie forme non sia sufficiente ad assicurare questa copertura, imporre lo strumento dell’obbligo, se particolari esigenze e particolari contingenze, la cui durata nel tempo deve essere oggetto comunque di monitoraggio costante per adattare la legislazione al divenire degli eventi, rendano inevitabile, e improcrastinabile, il ricorso all’azione autoritativa a fronte di una emergenza epidemiologica in corso e al cospetto di una irrazionale, ingiustificabile, diffusa sfiducia e, dunque, in un contesto di crescente esitazione vaccinale.
37.9. In eguale direzione, si noti, si è mosso lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica, nel suo parere, I vaccini Covid-19. Aspetti etici per la ricerca il costo e la distribuzione, allorquando ha raccomandato di rispettare – a p. 13 – il principio che nessuno dovrebbe subire un trattamento sanitario contro la sua volontà, preferendo l’adesione spontanea rispetto all’imposizione autoritativa, ove il diffondersi del senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano, ma ha anche soggiunto che, nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, «non vada esclusa l’obbligatorietà dei vaccini, soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus; tale obbligo dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo significativo per la collettività».
38. E proprio ciò il legislatore ha inteso fare, con la previsione dell’obbligo vaccinale introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.
38.1. Resta tuttavia il dato, incontestabile alla luce del diritto vivente, che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e quella delle Corti supreme in altri Stati (v., ad esempio, Jacobson v. Mass., 197, U.S. 11, 26), non ha affatto escluso la legittimità delle vaccinazioni obbligatorie a tutela della salute pubblica e, in particolare, dei soggetti più vulnerabili, a cominciare dai minori.
38.2. Nemmeno nella prospettiva e dall’analisi del c.d. costituzionalismo multilivello, fatta valere dagli odierni appellanti con la censura in esame, emerge la contrarietà della misura ai valori generalmente riconosciuti a livello sovranazionale o internazionale, in ambito europeo ed extraeuropeo.
38.3. Quanto in sintesi esposto induce, ovviamente e conclusivamente, alla reiezione sia della seconda censura (pp. 65-66 del ricorso) che della terza censura (p. 66 del ricorso), con le quali gli appellanti, rispettivamente, deducono l’illegittimità derivata di tutti gli atti amministrativi, qui impugnati, che hanno fatto applicazione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, in ipotesi contrastante con il diritto eurounitario e con quello convenzionale, sia la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE per la questione interpretativa degli artt. 3 della Carta e dell’art. 8 della CEDU, in relazione all’art. 52 della Carta, posto che, a tutto concedere, la questione sarebbe dovuta essere rimessa alla Corte costituzionale per valutare l’esistenza di questo contrasto, con conseguente, se del caso, declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 del citato d.l. n. 44 del 2021.
39. Con la quarta censura (pp. 66-67 del ricorso), ancora, gli appellanti deducono l’illegittimità, per vizi propri, degli atti impugnati in quanto essi obbligano alla vaccinazione anche coloro che hanno già contratto la malattia e, pertanto, hanno acquisito la c.d. immunità naturale.
39.1. Ciò, si lamenta, in mancanza di qualsivoglia evidenza scientifica che deponga nel senso per cui la contrazione della malattia non rende immuni da una nuova infezione.
39.2. Così non sarebbe, tuttavia, perché lo stesso Ministero della Salute ha previsto, con la circolare del 3 marzo 2021, che i soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2, decorsa in maniera sintomatica o asintomatica, non possono vaccinarsi prima di tre mesi di distanza dalla documentata infezione.
39.3. La previsione di tale termine, come dimostrerebbe l’esistenza di diversi studi che hanno dimostrato la persistenza di una forte risposta immunitaria a distanza di mesi, sarebbe evidente sintomo di incertezza circa le garanzie di sicurezza che la vaccinazione offre a coloro che già hanno una gran quantità di anticorpi per aver contratto il virus.
39.4. Sarebbe qui evidente l’illegittimità degli atti impugnati laddove, non consentendo di significare all’amministrazione procedente il proprio stato di guarito dal virus, obbligherebbero gli appellanti a sottoporsi ad un trattamento sanitario inutile e, si sostiene, presumibilmente dannoso.
39.5. Nell’ipotesi in cui questo Consiglio non ritenesse che nessuna attività istruttoria sia imposta alla pubblica amministrazione, in ragione del tenore dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, gli appellanti hanno chiesto la sospensione del giudizio e la rimessione della questione alla Corte costituzionale per la sospetta illegittimità della norma nella parte in cui non prevede, tra le ipotesi di differimento o di omissione dell’obbligo vaccinale, la situazione dei soggetti che abbiano già contratto la malattia e, quindi, posseggano la c.d. immunità naturale, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 Cost.
39.6. Difetterebbero infatti, anche in tale caso, entrambi i requisiti di idoneità e necessità della misura che, pertanto, si porrebbe in evidente contrasto con il principio di proporzionalità e paleserebbe, così, la propria irragionevolezza.
39.7. L’interpretazione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 propugnata dagli appellanti è all’evidenza forzata e irragionevole perché l’ipotesi della persona che abbia già contratto il virus e che sia, quindi, ancora in possesso di una carica anticorpale che sconsiglia nell’immediato la somministrazione del vaccino deve essere ricondotta all’appropriata sedes materiae del comma 2 dell’art. 4 dell’art. [d.l.] n. 44 del 2021, laddove consente che la somministrazione del vaccino sia posticipata, senza essere omessa, sin quando dal test sierologico non sia emerso che il titolo anticorpale si sia ridotto e sia, così, rientrato nei livelli fisiologici che rendono necessaria la somministrazione – monodose – del vaccino.
39.8. Il fatto che l’immunità naturale, la quale non conferisce certo una patente di immunità perenne, abbia una durata limitata e richieda di accertare la presenza di anticorpi ben può e deve essere coordinato insomma, senza seguire interpretazioni che tendano ad aggravare spropositatamente l’entità dell’obbligo vaccinale e, quindi, a patrocinare una lettura invalidante della sua previsione, con la previsione del comma 2, differendo la somministrazione del vaccino, sul piano cronologico, al momento in cui venga meno l’effetto schermante prodotto dalla immunità naturale.
39.9. Ne segue che la censura, seguendo tale interpretazione, costituzionalmente orientata, dell’art. 4, che consente una ragionevole applicazione dell’obbligo vaccinale anche in ipotesi di immunità naturale, debba essere respinta, in quanto la relativa questione si configura, a questa stregua, come manifestamente infondata, tenendo anche presente il dato, non secondario, che lo stesso Ministero della Salute, con l’aggiornamento della circolare del 21 luglio 2021, ha previsto che «è possibile considerare la somministrazione di un’unica dose di vaccino anti Sars-CoV-2/COVID-19 nei soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché la vaccinazione venga eseguita preferibilmente entro i 6 mesi dalla stessa e comunque non oltre 12 mesi dalla guarigione».
40. Per tutte le ragioni sin qui esposte, da richiamarsi qui per intero senza inutili ripetizioni contrarie al principio di sinteticità, deve essere respinta anche la quinta censura, sollevata dagli appellanti (pp. 68-69 del ricorso), con cui si prospetta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, più volte citato, per la dedotta violazione degli artt. 11 e 117, comma secondo, Cost., in relazione agli artt. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, dell’art. 8 della CEDU e del principio di proporzionalità.
40.1. I dedotti profili, per le ragioni ampiamente esposte, sono tutti inconsistenti, anche in relazione al principio di proporzionalità, di cui si dirà meglio in seguito.
41. Con la sesta censura (pp. 69-72), ancora, gli odierni appellanti censurano l’imposizione dell’obbligo vaccinale per il contrasto con l’art. 32 Cost. e con il diritto di autodeterminazione che esso riconosce alla persona.
41.1. Essi sostengono, ancora una volta, che l’imposizione di un determinato trattamento sanitario obbligatorio non può prescindere dalla garanzia delle condizioni di sicurezza ed efficacia del trattamento medesimo, che costituiscono condiciones sine quibus non di una imposizione che, per definizione, non incontra il consenso del destinatario.
41.2. Ma ancora una volta, richiamando qui tutte le motivazioni sopra esposte, le censure degli appellanti muovono da un presupposto scientifico errato, secondo cui le vaccinazioni non sarebbero efficaci e sicure, mentre, come si è visto, esse sono state autorizzate all’esito di procedure rigorose e di sperimentazioni solide e, come dimostrano i dati più recenti e la comparazione delle diverse evidenze della malattia tra soggetti vaccinati e non vaccinati, si stanno dimostrando efficaci sia nel contenimento della malattia, quanto ai sintomi più gravi, che nella diffusione del contagio.
41.3. La tesi degli appellanti pecca di astrattezza perché nessun farmaco, come si è detto, è a rischio zero e i risultati della sperimentazione clinica condotta in tempi rapidi da numerosi ricercatori, con uno sforzo a livello globale senza precedenti, hanno portato alla conclusione, unanimemente condivisa dalla comunità scientifica internazionale, che il rapporto tra rischi e benefici è largamente favorevole per i soggetti che si sottopongono a vaccinazione.
41.4. Ne discende che la vaccinazione rispetta tutti i requisiti fissati dal nostro ordinamento e ribaditi da ultimo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018 per configurare un trattamento sanitario obbligatorio legittimo, non ultimo quello, di cui si dirà, relativa alla indennizzabilità dell’eventuale danno conseguente, con la conseguente manifesta infondatezza della questione di costituzionalità qui sollevata.
42. Con la settima censura (pp. 72-75 del ricorso), ancora, gli appellanti censurano l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 in rapporto all’art. 3 Cost. sotto i diversi profili della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’uguaglianza.
42.1. Quanto al primo profilo, inerente alla ragionevolezza, essi sostengono che il vaccino non costituirebbe misura idonea allo scopo poiché non vi è certezza che il soggetto vaccinato non sia in grado di trasmettere il virus Sars-CoV-2 e, dunque, non si può ritenere che la sua somministrazione soddisfi il fine pubblico al quale è preordinata.
42.2. Quanto al secondo profilo, inerente alla proporzionalità, gli appellanti lamentano che nel perseguimento dell’interesse generale il legislatore avrebbe dovuto prediligere gli strumenti che comportavano il minor sacrificio per gli interessi contrastanti – ad esempio, misure di distanziamento, utilizzo di guanti e mascherine, disinfettanti e paratie in plexiglass oppure sottoposizione degli operatori sanitari a tamponi molecolari o salivari, in grado si svelare, con elevata probabilità, lo stato di salute di chi vi si sottopone – mentre l’imposizione dell’obbligo avrebbe dovuto costituire, in una logica di equilibrato bilanciamento tra gli opposti valori in gioco, l’extrema ratio.
42.3. Quanto al terzo profilo, inerente al principio di uguaglianza, si deduce la natura discriminatoria della vaccinazione, imposta al solo personale sanitario, senza ragione alcuna, a differenza di tutti gli altri cittadini, in quanto la libertà di autodeterminazione non potrebbe essere sacrificata solo in nome di esigenze di interesse pubblico che, nel caso in esame, stante la mancanza di garanzie in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini, oltre che all’inidoneità di questi ad evitare la trasmissione del virus Sars-CoV-2, evidentemente non sarebbero configurabili.
42.4. Anche queste censure, tuttavia, devono essere respinte perché le relative questioni di costituzionalità sono manifestamente infondate.
42.5. In merito alla dedotta irragionevolezza della disposizione, infatti, si è già ampiamente chiarito che i quattro vaccini sono efficaci e sicuri, allo stato delle conoscenze acquisite e delle sperimentazioni cliniche eseguite (c.d. trials), e rispondono pienamente allo scopo perseguito dal legislatore e, cioè, quello di evitare la diffusione del contagio tra la popolazione, con particolare riferimento, in questo caso, ai pazienti a gli utenti del sistema sanitario, pubblico e privato, tendenzialmente più esposti al rischio di infezione nei luoghi di cura e assistenza, dove sono ospitati numerosi pazienti o transitano numerosi utenti bisognosi di cura, e per definizione più vulnerabili.
42.6. In merito alla dedotta mancanza di proporzione, ancora, occorre rilevare che le evidenze registrate negli ultimi mesi, a vaccinazione avviata, e oggetto di studi – anche osservazionali – dimostrano come solo la vaccinazione stia producendo il risultato di limitare la diffusione del contagio, in generale, e nelle strutture sanitarie, ospedaliere e residenziali, in particolare, impedendo che la trasmissione avvenga proprio nei luoghi di cura, a danno dei soggetti più fragili (malati e anziani), proprio per via del personale medico o infermieristico non vaccinato, in quanto le altre misure, indicate dall’appellante, per quanto utili e raccomandate non sono state decisive nel limitare il contagio, come dimostrano la prima e la seconda ondata della pandemia.
42.7. Quanto alla natura discriminatoria della previsione, infine, il carattere selettivo della vaccinazione obbligatoria è giustificato non solo dal principio di solidarietà verso i soggetti più fragili, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.), ma immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, relazione che postula, come detto, la sicurezza delle cure, impedendo che, paradossalmente, chi deve curare e assistere divenga egli stesso veicolo di contagio e fonte di malattia.
42.8. Non può essere seguita la tesi degli appellanti, quando invocano la prevalenza del diritto di autodeterminazione, pur fondamentale nel nostro ordinamento, come si è detto, in quanto diretta espressione della dignità della persona, a scapito dell’interesse pubblico alla vaccinazione obbligatoria degli operatori sanitari, poiché quella stesso valore supremo nella gerarchia dei principî costituzionali e, cioè, la dignità della persona (v., sul punto, Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258) – di ogni persona e non di un astratto, intangibile, invulnerabile, inafferrabile soggetto di diritto – esige la protezione della salute di tutti, quale interesse collettivo, conformemente, del resto, al principio universalistico a cui si ispira il Servizio sanitario in Italia (art. 1 della l. n. 833 del 1978), e in particolare la tutela primaria delle persone più vulnerabili, che entrano, lo si ribadisce, in una relazione di cura e di fiducia – art. 2, comma 1, della l. n. 219 del 2017 – con il personale sanitario.
42.9. La logica dei cc.dd. diritti tiranni e, cioè, di diritti che non entrano nel doveroso bilanciamento con eguali diritti, spettanti ad altri, o con diritti diversi, pure tutelati dalla Costituzione, e pretendono di essere soddisfatti sempre e comunque, senza alcun limite, è del resto estranea ad un ordinamento democratico, perché «il concetto di limite è insito nel concetto di diritto» (Corte cost., 14 giugno 1954, n. 1) ed è stata espressamente sempre ripudiata anche dalla Corte costituzionale che, come noto, ha chiarito che tutti i diritti tutelati dalla Costituzione – anche quello all’autodeterminazione – si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri perché, se così non fosse, si verificherebbe «la illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette» (Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85).
43. Occorre qui ancora e di nuovo richiamare il fondamentale valore della solidarietà, cardine, come pure si è detto, del nostro ordinamento costituzionale e, insieme con esso, quei fondamentali obblighi di reciproca assistenza e protezione, per sé e per gli altri, anche essi parimenti posti a fondamento della nostra Costituzione (art. 2 Cost.), obblighi che legano ciascun individuo all’altro, indissolubilmente, in una “social catena” e in quel “patto di solidarietà” tra individuo e collettività che, secondo la stessa Corte costituzionale, sta alla base di ogni vaccinazione, obbligatoria o raccomandata che sia (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118).
43.1. Spetta al decisore pubblico, nell’esercizio del c.d. biopotere, fissare le regole e i limiti entro i quali l’esercizio dell’autodeterminazione da parte di ciascuno, senza divenire un diritto tiranno e indifferente alle sorti dell’altro, si possa accordare con la tutela della salute degli altri secondo una legge universale di libertà, ma questo delicato bilanciamento, per tutte le ragioni sin qui viste, non ha varcato nel caso di specie, ad avviso di questo Consiglio, i limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’eguaglianza, sicché ogni dubbio al riguardo è e deve ritenersi manifestamente infondato anche in rapporto ai valori protetti dall’art. 2 Cost.
44. Con l’ottava censura (pp. 75-78 del ricorso), ancora, gli appellanti denunciano l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, in rapporto agli artt. 2 e 32 Cost., per la mancata previsione dell’indennizzo per il caso in cui, dalla somministrazione, dovesse derivare un pregiudizio grave e/o permanente per l’integrità fisica del soggetto al quale il vaccino è inoculato.
44.1. Le caratteristiche della vaccinazione obbligatoria qui contestata, frutto di una imposizione temporanea – fino al 31 dicembre 2021 – dovuta all’emergenza epidemiologica ad alcune categorie di cittadini, avrebbero imposto la specifica previsione di un indennizzo per il caso di conseguenze lesive e/o permanenti derivanti dalla somministrazione, invece, inammissibilmente non previsto dalla disposizione in esame.
44.2. La questione difetta tuttavia di rilevanza perché nessuno degli odierni appellanti si è sottoposto a vaccinazione, obbligo, del resto, non coercibile fisicamente (come essi riconoscono), e dunque la circostanza che dalla somministrazione di questo possa derivare una conseguenza lesiva è una mera eventualità, priva di qualsivoglia concretezza ed attualità nel presente giudizio.
44.3. La censura è comunque manifestamente infondata perché la vaccinazione in questione rientra, a pieno titolo, tra quelle previste dall’art. 1 della l. n. 210 del 1992, a norma del quale «chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge».
44.4. Non è perciò necessaria un’espressa previsione dell’indennizzo nel testo dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, fermo restando ogni eventuale opportuno intervento integrativo da parte del legislatore nel sapiente esercizio della propria discrezionalità anche in riferimento alle ipotesi di vaccinazioni meramente raccomandate, in quanto l’art. 1 della l. n. 210 del 1992, nella costante interpretazione datane dalla Corte costituzionale (v., da ultimo, Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118, si riferisce alle sole vaccinazioni obbligatorie, per legge, come è del resto espressamente, e inequivocabilmente, quella prevista dall’art. 4 del più volte citato d.l. n. 44 del 2021.
44.5. D’altro canto, come ha chiarito la Corte proprio nella sentenza da ultimo citata (ma v. anche Corte cost., 14 dicembre 2017, n. 268), è necessaria la traslazione in capo alla collettività, favorita dalle scelte individuali, degli effetti dannosi che da queste eventualmente conseguano.
44.6. In questa prospettiva la previsione dell’indennizzo completa il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione.
44.7. La ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo non risiede nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio, ma riposa, piuttosto, sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psicofisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale.
44.8. Per questo, secondo la Corte, la mancata previsione del diritto all’indennizzo in caso di patologie irreversibili derivanti da determinate vaccinazioni raccomandate si risolve in una lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., perché sono le esigenze di solidarietà costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo (sentenze n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012).
44.9. Nel caso in esame, però, l’obbligo di indennizzo è chiaramente garantito dall’applicazione dell’art. 1 della l. n. 210 del 1992, la cui applicazione diretta è incontestabile anche alla vaccinazione obbligatoria prevista dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.
45.. La questione sollevata, dunque, è irrilevante e, in ogni caso, manifestamente infondata.
46. Con la nona censura (pp. 78-80 del ricorso), ancora, gli odierni appellanti deducono la violazione degli artt. 9 e 33 Cost., in quanto l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 li obbligherebbe ad accettare la vaccinazione, quando essi potrebbero e vorrebbero prediligere misure alternative idonee al raggiungimento della finalità perseguita, nonostante essi stessi siano tutti soggetti legati all’ambiente sanitario, in grado di manifestare dissensi informati e non meramente aprioristici e preconcetti, pur godendo essi di conoscenze specifiche nel settore.
46.1. Ciò impedirebbe, peraltro, anche il progresso della ricerca scientifica, con violazione dell’art. 9 Cost., che tutela la libertà della ricerca scientifica stessa, in riferimento ad altre possibili soluzioni curative.
46.2. Anche queste questioni di costituzionalità, al pari delle altre, sono manifestamente infondate e vanno respinte.
46.3. Quanto al profilo della dedotta violazione dell’art. 33, comma primo, Cost., secondo cui la scienza è libera, non si vede come l’obbligo vaccinale imposto dal legislatore possa ledere tale valore costituzionale, posto che anzi i vaccini sono stati il frutto di una approfondita e libera ricerca scientifica, peraltro avviata già da anni in riferimento ad altri tipi di virus, e sono stati autorizzati all’esito di una procedura che ha visto il rispetto dei più rigorosi standard scientifici.
46.4. Il legislatore non solo non ha violato la c.d. riserva di scienza, in questa materia (v. proprio la sentenza n. 282 del 20 giugno 2002, già sopra menzionata e citata dagli appellanti), attenendosi ai risultati della miglior scienza ed esperienza disponibili su scala mondiale, in accordo, del resto, a quanto è avvenuto in altri ordinamenti europei ed extraeuropei, ma ha anzi adottato e imposto, almeno al personale sanitario, i risultati incoraggianti di questa ricerca a tutela della salute pubblica.
46.5. Né gli appellanti possono addurre, genericamente, di conoscere più degli altri cittadini possibili – ma qui non indicate – terapie alternative, in ragione delle loro specifiche competenze, posto che, come questo Consiglio di Stato ha chiarito, l’esercizio del diritto all’autodeterminazione, che essi rivendicano, non può «comportare un pericoloso soggettivismo curativo o un relativismo terapeutico nel quale è “cura” tutto ciò che il singolo malato vuole o crede, perché nell’alleanza terapeutica è e resta fondamentale l’insostituibile ruolo del medico nel selezionare e nell’attuare le opzioni curative scientificamente valide e necessarie al caso» (Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460).
46.7. In altri termini è la scienza ad indicare al legislatore, ma anche all’individuo le opzioni terapeutiche valide, che questi può scegliere, e non è certo l’individuo, ancorché dotato di proprie personali competenze e di un sapere asseritamente superiore, a forgiarsi una cura da indicare alla scienza e al legislatore, costruendosi una cura “parallela”, “propria”, “privata”, non controllabile da alcuno e non verificabile in base ad alcun criterio scientifico di validazione.
46.8. La libertà e il progresso della scienza invocati dagli appellanti, pur protetti dalla nostra Costituzione negli artt. 9 e 33, non sono né possono essere anarchici o erratici.
46.9. Quel che è certo, comunque, è che l’imposizione della vaccinazione obbligatoria non limita alcuna libertà né progresso della scienza e nessuna prova di tale limite, con riferimento alla ricerca di una cura contro l’infezione da Sars-CoV-2, è stata offerta dagli odierni appellanti.
47. La censura, quindi, deve essere respinta perché la sottesa questione di costituzionalità è, ancora una volta, manifestamente infondata.
48. Con la decima censura (p. 80 del ricorso), infine, gli odierni appellanti lamentano la violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. perché la conseguenza prevista per l’inadempimento dell’obbligo e, cioè, la sospensione dell’esercizio professionale, autonomo o dipendente, confliggerebbe con la tutela del principio lavoristico, sul quale è fondata la Repubblica (art. 1 Cost.), sopprimendo di fatto l’esercizio del diritto al lavoro e la percezione di un compenso che fornisca al lavoratore e alla sua famiglia le risorse necessarie ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.
48.1. Non sarebbe possibile correlare un obbligo violativo della libertà di scelta della cura all’impossibilità di esercitare la propria professione, se non violando gli artt. 1, 2 4 e 36 Cost.
48.2. Anche quest’ultima censura è manifestamente infondata e va respinta.
48.3. Correttamente il legislatore infatti, nel comma 1 dell’art. 4, ha stabilito che vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati.
48.4. Questa previsione risponde non solo ad un preciso obbligo di sicurezza e di protezione dei lavoratori sui luoghi di lavoro, a contatto con il pubblico, obbligo che, secondo una tesi dottrinaria autorevole, già discenderebbe in questa fase di emergenza – ma il tema è discusso – dall’applicazione combinata della regola generale di cui all’art. 2087 c.c. e dalle disposizioni specifiche del d. lgs. n. 81 del 2008, ma anche, come detto, al principio, altrettanto fondamentale, di sicurezza delle cure, rispondente ad un interesse della collettività (art. 32 Cost.).
48.5. Un simile interesse è sicuramente prevalente, nelle attuali condizioni epidemiologiche, sul diritto al lavoro, di cui all’art. 36 Cost., e d’altro canto il legislatore, seguendo un criterio di gradualità, ha stabilito sanzioni proporzionate all’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni perché, come prevede il comma 8, il datore di lavoro deve adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.
48.6. La sospensione dell’attività lavorativa e della retribuzione, peraltro temporanee perché possibili solo fino al 31 dicembre 2021, costituiscono l’extrema ratio ed operano solo quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile sicché, per il periodo di sospensione di cui al comma 9, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato.
48.7. Anche in questo caso il bilanciamento non appare irragionevole, avuto riguardo alla comparazione degli opposti valori, e qui merita solo ricordare che il Conseil constitutionnel in Francia, pronunciandosi con la decisione n. 824 del 5 agosto 2021 su una analoga legge la quale prevede che al lavoratore, che non presenta il passe sanitaire e non scelga di utilizzare ferie e congedi retribuiti, venga comunicata il giorno stesso la sospensione dal lavoro, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità perché il legislatore ha perseguito l’obiettivo, di valore costituzionale, di proteggere la salute, limitando la propagazione dell’epidemia.
48.8. Analoghe considerazioni non possono che valere a fortiori per il personale sanitario in Italia, con la conseguente manifesta infondatezza della questione di costituzionalità qui sollevata.
49. In conclusione, per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, quanto alla declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto in primo grado dagli odierni appellanti, ma questo ricorso, pur ammissibile, deve essere respinto in tutte le sue censure.
50. Le spese del doppio grado del giudizio, sulle quali il Collegio si è riservato di decidere, ai sensi dell’art. 26 c.p.a., all’esito del complesso esame sin qui condotto delle censure proposte in primo grado, possono essere interamente compensate tra le parti per la complessità delle questioni esaminate, che investono il delicato bilanciamento tra valori costituzionali a fronte di una nuova vaccinazione obbligatoria, introdotta dal legislatore dell’emergenza.
50.1. Rimane definitivamente a carico degli appellanti, per la soccombenza sul piano sostanziale, il contributo unificato richiesto per la proposizione del ricorso in primo e in secondo grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, proposto dagli odierni interessati, lo accoglie ai sensi di cui in motivazione e per l’effetto, dichiarato ammissibile il ricorso di primo grado, lo respinge nel merito.
Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.
Pone definitivamente a carico dei ricorrenti il contributo unificato richiesto per la proposizione del ricorso proposto in primo e in secondo grado.
...
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