Sentenza n. 1063 del 27.11.2017 - distanza tra edifici
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Sentenza n. 1063 del 27/11/2017 – distanza tra edifici
Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda)
Estratto:
Le ricorrenti sono comproprietarie di un compendio immobiliare sito in zona A nel centro storico del Comune di Castelfranco che confina con la proprietà della controinteressata Immobiliare Giotto Srl. Lo strumento urbanistico ha compreso entrambe le proprietà nell’ambito di un unitario strumento urbanistico attuativo di recupero che tuttavia non è mai stato realizzato per il mancato accordo tra gli interessati.
La controinteressata avvalendosi delle facoltà previste dalla legge regionale sul c.d. piano casa 8 luglio 2009, n. 14, che consente di derogare alle previsioni dello strumento urbanistico, ha ottenuto il permesso di costruire n. 48 del 17 marzo 2015, volto a valorizzare il proprio compendio immobiliare anche senza la previa approvazione del piano di recupero previsto controinteressata ne è priva, come è comprovato dalla circostanza che per realizzare le opere di urbanizzazione ha dovuto ottenere giudizialmente un titolo ai sensi dell’art. 700 c.p.c. successivamente al rilascio del titolo. In seguito il permesso di costruire n. 48 del 17 marzo 2015, impugnato con il ricorso introduttivo, è decaduto per il mancato inizio dei lavori entro il termine di un anno. Successivamente la controinteressata ha presentato al Comune una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire per realizzare il medesimo intervento oggetto del permesso di costruire decaduto e il Comune, tenendo conto che non vi erano modifiche rispetto al progetto originario, con provvedimento prot. n. 27723 del 30 giugno 2016, ha adottato una presa d’atto liberatoria che autorizza l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione, demolizione, ricostruzione e ampliamento del fabbricato residenziale.
Le ricorrenti, che sono venute a conoscenza dell’esistenza di tale atto solo a seguito del suo deposito nel corso del giudizio civile pendente, lo impugnano con motivi aggiunti per le medesime censure già proposte con il ricorso introduttivo, alle quali aggiungono le seguenti: IV) violazione dell’art. 9 del DM 9 aprile 1968, n. 1444, perché non viene rispettata la distanza di 10 m da una porzione del portico delle ricorrenti che deve considerarsi come parete finestrata; V) violazione dell’art. 6 della legge regionale 8 luglio 2009, n. 14, perché, come risulta dal raffronto tra la planimetria relativa all’accatastamento dei fabbricati e quella di progetto, si rileva che nel tratto sud ovest l’edificazione della muratura perimetrale dell’edificio della controinteressata interesserà ed occuperà per circa 20 cm il sedime della proprietà delle ricorrenti. Si sono costituiti in giudizio il Comune di Castelfranco e la controinterssata Immobiliare Giotto Srl, eccependo la sopravvenuta carenza di interesse del ricorso introduttivo e concludendo per la reiezione delle censure proposte con i motivi aggiunti. Con ordinanza n. 599 del 16 novembre 2016, è stata accolta la domanda cautelare, confermata in appello con ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 543 del 16 marzo 2017 sul profilo del periculum. Alla pubblica udienza dell’8 novembre 2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
Preliminarmente deve essere dichiarata l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso introduttivo con il quale è stato impugnato il permesso di costruire che è decaduto in pendenza della controversia. Infatti l'interesse a ricorrere deve sussistere non solo al momento della proposizione dell'impugnativa, ma anche in epoca successiva, in base al principio che le condizioni dell'azione debbono permanere fino al momento del passaggio in decisione della controversia Nel merito, le censure proposte con i motivi aggiunti, ad un più approfondito esame di quello svolto in sede cautelare che tiene conto anche delle indicazioni contenute nell’ordinanza cautelare di appello, si rivelano infondate e devono essere respinte.
Il primo motivo con il quale le ricorrenti sostengono che la controinteressata non potrebbe beneficiare della normativa sul piano casa perché il suo compendio immobiliare sarebbe privo di opere di urbanizzazione è privo di fondamento. Infatti l’intervento da realizzare si trova in zona A nel centro storico di Castelfranco Veneto in un contesto densamente abitato in cui sono presenti tutte le opere di urbanizzazione e la censura in realtà confonde le opere di urbanizzazione, che nel caso di specie sono presenti e adeguate, e gli allacciamenti, che invece devono ancora essere effettuati ma attengono ad una diversa problematica inerente la fase successiva all’edificazione (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 14 dicembre 2011, n. 1834; Consiglio di Stato, Sez. V 23 gennaio 2006 n. 159). Pertanto, contrariamente a quanto dedotto, il titolo edilizio sotto questo profilo non poteva essere negato ed il primo motivo deve essere respinto.
Il secondo motivo, con il quale le ricorrenti sostengono che ai fini dell’applicazione della normativa regionale sul piano casa un edificio crollato non può essere considerato come esistente non può essere accolto. La problematica relativa alla nozione di “edifici esistenti” nella prospettiva del legislatore regionale del piano casa rileva ai fini dell’applicabilità agli edifici in corso di realizzazione, perché la legge piano casa si applica agli edifici esistenti alla data del 31 ottobre 2013 (nelle diverse norme viene fatto continuo riferimento alla nozione di “edificio esistente”, ovvero di “patrimonio edilizio esistente”; in via eccezionale l’art. 9, comma 6, ammette ampliamenti anche per gli edifici non ancora realizzati il cui progetto o la cui richiesta di titolo abilitativo siano stati presentati al Comune entro il 31 ottobre 2013).
In quest’ottica la circolare regionale n. 1 del 13 novembre 2014, ha precisato che, in mancanza di una definizione nella legge della nozione di “edificio esistente” alla quale riferirsi, è possibile in via analogica riferirsi all’elaborazione giurisprudenziale intervenuta in materia di condono che ha precisato che per considerarsi esistente l’edificio deve essere perlomeno caratterizzato dalla presenza delle strutture portanti e della copertura, mentre non è richiesta l’agibilità.
Tuttavia, come visto, tutti questi aspetti attengono in modo espresso all’applicabilità della legge sul piano casa rispetto ad immobili in fieri, in corso di realizzazione mentre mancano specifiche previsioni inerenti la diversa problematica attinente all’eventuale utilizzabilità di edifici crollati o demoliti. Rispetto a questi ultimi, in mancanza di disposizioni regionali di segno diverso, è pertanto condivisibile la tesi espressa dal Comune e dalla controinteressata che ritiene applicabile agli edifici crollati o demoliti il medesimo regime previsto dall’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR 6 giugno 2001, n. 380, come modificato dall'articolo 30, comma 1, lettera a), del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 convertito in legge 9 agosto 2013, n. 98, che in via generale qualifica come interventi di ristrutturazione edilizia, la cui caratteristica peculiare consiste nell’apportare modifiche sul patrimonio edilizio esistente, anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, a condizione che “sia possibile accertarne la preesistente consistenza”. Nel caso di specie dalla documentazione fotografica allegata alla pratica edilizia che rappresenta il manufatto come era in origine e dalle mura perimetrali e dai pilastri rimasti, trattandosi di un edificio adibito a magazzino dalla struttura regolare essendo a pianta rettangolare con unica falda inclinata di copertura, è stato possibile ricostruire con esattezza la sagoma, la superficie ed il volume originari, e pertanto l’immobile, alla luce del combinato disposto tra la normativa statale sopravvenuta che ha ridefinito la nozione di ristrutturazione e quella regionale sul piano casa, legittimamente è stato considerato come “esistente” ai fini dell’applicazione della normativa sul piano casa. Il secondo motivo deve pertanto essere respinto.
Il terzo motivo, con il quale le ricorrenti sostengono la mancanza di legittimazione ad eseguire l’intervento comprovata dalla circostanza che la controinteressata ha dovuto ottenere un titolo giudiziale per poter eseguire le predette opere, è privo di fondamento. Infatti, come sopra precisato, nel caso di specie non si pone un problema di esecuzione delle opere di urbanizzazione mancanti, ma di esecuzione degli allacciamenti che non ha alcuna rilevanza in sede di rilascio del titolo edilizio, dato che attiene ad una fase successiva all’edificazione. In ogni caso tale censura anche in fatto non assume alcuna rilevanza, dal momento che la controinteressata ha comunque ottenuto dal giudice civile un titolo per superare il dissenso delle ricorrenti per il passaggio delle condutture attraverso la loro proprietà.
Anche il terzo motivo deve pertanto essere respinto. Parimenti infondato è anche il quarto motivo, con il quale le ricorrenti lamentano il mancato rispetto della distanza di 10 m tra pareti finestrate. Infatti come controdedotto dalla controinteressata, senza replica sul punto da parte delle ricorrenti, dalla documentazione versata in atti e, in particolare, dalla tavola 6 del progetto (cfr. doc. 9 allegato alle difese della controinteressata nell’elenco documenti depositato in giudizio l’11 novembre 2016), l’edificio in progetto in realtà rispetta la distanza di 10 m, perché la porzione del muro che secondo le ricorrenti viola le distanze, viene dalle stesse misurata in modo scorretto. Infatti in giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale, poiché lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare intercapedini dannose, le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale (ex pluribus cfr. Cassazione civile, sez. II, 7 aprile 2005, n. 72859) e la relativa disciplina non trova pertanto applicazione “quando i fabbricati sono disposti ad angolo e non hanno fra loro pareti contrastanti perché ciò che rileva è la distanza fra opposte pareti” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 5 ottobre 2005, n. 5348), che è quanto accade nel caso di specie in cui la proiezione della nuova parete chiusa progettata in ampliamento del deposito crollato non interseca il portico delle ricorrenti. Il quarto motivo deve pertanto essere respinto. Il quinto motivo, con il quale le ricorrenti affermano che l’edificio in progetto occuperebbe una porzione di 20 cm della propria proprietà è privo di riscontri, perché in tutte le tavole l’edificio in progetto è sempre indicato all’interno dei confini di proprietà e, come chiarito dalla controinteressata, l’erronea indicazione della tavola 6 è ascrivibile ad un mero errore materiale, come risulta dal raffronto con le altre tavole di progetto, avvenuto nella sovrapposizione tra la tavola di progetto e quella dello stato di fatto.
In definitiva pertanto il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse e i motivi aggiunti devono essere respinti. Per il principio della soccombenza le spese di giudizio sono poste a carico delle ricorrenti nella misura indicata nel dispositivo.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, seconda Sezione, definitivamente pronunciando, dichiara l’improcedibilità del ricorso introduttivo, e respinge i motivi aggiunti. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio in favore del Comune di Castelfranco e della controinteressata liquidandole nella somma di € 2.000,00 per ciascuna parte oltre ad iva e cpa. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 8 novembre 2017 con l'intervento dei magistrati: Alberto Pasi, Presidente Stefano Mielli, Consigliere, Estensore Marco Morgantini.
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