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Sentenza Cassazione Penale Sez. 3 Num. 19211 Anno 2017

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Sentenza Cassazione Penale Sez  3 Num  19211 Anno 2017

Sentenza Cassazione Penale Sez. 3 Num. 19211 Anno 2017

Penale Sent. Sez. 3 Num. 19211 Anno 2017
Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: GALTERIO DONATELLA
Data Udienza: 16/03/2017

Ritenuto in fatto 

1.Con sentenza in data 1.12.2015 il Tribunale di Belluno ha condannato I.R., A. e R. D.S. alla pena di € 5.000 di ammenda ciascuno con il beneficio della sospensione condizionale ritenendoli colpevoli dei reati di cui agli artt. 256, comma 1 letta) e b) e comma 4 perché in cooperazione tra loro, nella qualità di legali rappresentanti della s.n.c. S., esercente attività di recupero rifiuti effettuavano in assenza di autorizzazione, stoccaggio di rifiuti non pericolosi e pericolosi, quali traversine ferroviarie, olii esausti e filtri di motori usati, nonché attività di gestione di rifiuti non pericolosi e ingombranti senza separarli per tipologie distinte. Avverso la suddetta pronuncia i tre imputati hanno proposto a mezzo del difensore atto di appello congiunto, innanzi alla Corte di Appello di Venezia riconvertito in ragione dell'inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena dell'ammenda ex art. 593, comma 3 cod. proc. pen., in ricorso per Cassazione, con trasmissione dei relativi atti a questa Corte. Con il primo motivo deducono che l'attività di deposito non autorizzato contestagli nel capo a) dell'imputazione imponeva la previa qualificazione degli oggetti ivi rinvenuti come rifiuti che secondo la normativa vigente ricorre in presenza di due condizioni, consistenti nel fatto che si tratti di sostanze od oggetti ricompresi nell'allegato A del d.lgs. 152/2006 e che chi li detiene intenda disfarsene. Contestano quindi che il materiale rinvenuto nella zona a valle, ovverosia fuori dall'area autorizzata, fosse annoverabile fra i rifiuti, trattandosi invece di materie prime secondarie, termine questo sostituito dalla vigente normativa come "end of waste", costituite ai sensi dell'art.184-ter d.lgs. 156/2006 da rifiuti sottoposti ad un'operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo che presenti le seguenti caratteristiche: che si tratti di sostanze od oggetti comunemente utilizzati per scopi specifici, che siano richiesti nel mercato e che il loro utilizzo non abbia un impatto negativo per l'ambiente e la salute. Deducono che tutte le suddette condizioni erano soddisfatte dal materiale suddetto, trattandosi di plastica, ramaglia, corrugati accantonato in cassoni fuori dall'area destinata allo stoccaggio dei rifiuti: poiché l'accantonamento di materiali omogenei fra loro era indizio evidente dell'avvenuta selezione dei materiali e della conseguente destinazione alla commercializzazione successiva, il giudizio di colpevolezza era stato reso in violazione di legge essendo stati apoditticamente definiti come rifiuti i suddetti materiali, senza dimostrare l'assenza di operazioni di recupero in corso e soprattutto senza accertare la natura dei materiali contenuti nei cassoni, né se si trattasse di un mero accantonamento temporaneo. Per quanto in particolare concerne il container con i fusti di olio esausto era stato evidenziato che si trattava di olio acquistato dalla società per la lubrificazione dei propri mezzi meccanici, destinazione questa che non poteva essere esclusa da una mera irregolarità contabile, ovverosia dalla mancata annotazione dell'olio nei registri di carico e scarico. 

2. Con il secondo motivo contestano con riferimento ai rifiuti rinvenuti a monte, ovverosia all'interno dell'area autorizzata senza essere stati separati, che si trattasse di stoccaggio definitivo, trattandosi invece come riferito dall'imputato A.D.S. e dai testi a discarico, le cui deposizioni erano state liquidate superficialmente dalla sentenza impugnata come irrilevanti, di materiale appena scaricato dai camion provenienti dagli ecocentri, e quindi ivi posizionato solo in via provvisoria. 

3. Con il terzo motivo contestano la penale responsabilità indistintamente acclarata per tutti e tre gli imputati sulla base della formale rappresentanza della società in capo ai medesimi, contrastante con la realtà sostanziale in cui era solo I.R.D.S. a gestire di fatto l'impresa e senza che fosse stata dimostrata la sussistenza di un legame psicologico degli altri coimputati con costui, ovverosia la consapevolezza in capo a ciascuno di essi delle azioni o delle omissioni, e quindi dell'eventuale, commissione di reati posti in essere dell'amministratore di fatto.

Considerato in diritto

1. Deve preliminarmente darsi atto che con atto pervenuto a questa Corte in data 9.3.2017 gli avvocati M. e M.P., sottoscrittori dell'atto di appello riconvertito in ricorso per Cassazione, hanno comunicato di aver rinunciato al mandato. La suddetta comunicazione proveniente dai difensori di fiducia ai quali era già stato tempestivamente notificato il decreto di fissazione di udienza, avvenuta a mezzo fax in data 16.1.2017, è priva di effetti rispetto al presente giudizio. Invero secondo l’univoco indirizzo di questa Corte nel giudizio di Cassazione l'obbligo per il presidente di nominare un difensore di ufficio è previsto dall'art. 613 c.p.p., comma 3 per l'ipotesi in cui l'imputato sia privo di difensore di fiducia, ma se l’imputato ne sia munito e ad esso sia stato tempestivamente notificato l'avviso di udienza, la successiva rinuncia al mandato da parte del difensore, al pari della (revoca da parte dell'imputato, esclude che debba procedersi alla nomina di un difensore di ufficio e al conseguente rinvio per darne comunicazione a quest'ultimo, obbligo questo ricorrente nel solo caso in cui l'udienza già fissata debba essere rinviata per altri motivi con conseguente nuova comunicazione del relativo avviso, che non potrebbe essere notificato al difensore revocato o rinunciante (Sez. F, n. 38876 del 20/08/2015 - dep. 24/09/2015, Morreale e altro, Rv. 2264701; Sez. 3, n. 22050 del 19/05/2006, Chiras ed altri, Rv. 234693). Al di fuori di tale peculiare ipotesi, non può essere disposto alcun rinvio che si tradurrebbe, a fronte di un'udienza già ritualmente fissata e comunicata alle parti nel rispetto del contraddittorio, nell'avallo di espedienti dilatori volti ad un indebito allungamento della durata del procedimento in violazione del principio costituzionalmente garantito della ragionevole durata del processo. 

2. Ancora in via preliminare occorre rilevare che l'istituto della conversione della impugnazione previsto dall'art. 568, comma 5, cod.proc.pen., ispirato al principio di conservazione degli
atti, determina unicamente l’automatico trasferimento del procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l'atto convertito deve avere i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta in quanto il principio di conservazione del mezzo di impugnazione non può in nessun caso consentire deroghe alle norme che formalmente e sostanzialmente regolano i diversi tipi di impugnazione (ex multis Sez. 1, n. 3846 del 08/04/1999 - dep. 09/07/1999, Annibaldi R, Rv. 213835). 

Così ridelineato il perimetro del sindacato di legittimità riservato a questa Corte, va rilevato in ordine al primo motivo che le doglianze svolte si traducono in una serie di censure in fatto, inammissibili in sede di legittimità, sulla dislocazione dei materiali rinvenuti al di fuori dell'area dell'impianto oggetto di autorizzazione provinciale, la zona cd. "a valle", e sulla loro sussumibilità nell'ambito dei rifiuti, lamentando la mancata verifica, che secondo i ricorrenti era a carico dell'accusa, della natura dei suddetti materiali, invece qualificabili come materie prime secondarie. In realtà questo è il primo equivoco in cui incorre la difesa: essendo il materiale in questione costituito, così come risulta dalla sentenza impugnata, da una molteplicità di oggetti di vario tipo e natura, quali plastica, ferro, imballaggi, pneumatici fuori uso, materiale di scarto
proveniente da attività edile rinvenuti alla rinfusa all’interno di alcuni container,
traversine ferroviarie appoggiate in terra e due cassonetti contenenti taniche di olio esausto e filtri per la manutenzione di automezzi, il medesimo correttamente è stato definito come rifiuto, rientrando nella classificazione di cui all’art. 184 d.lgs. 152/2006 come rifiuti urbani o speciali, e non necessitando, di regola, di particolari verifiche o analisi. Costituiscono rifiuti i materiali di cui solitamente ci si disfa ed oggettivamente destinati all’abbandono, salvo destinarli a successivi impieghi che vanno, però, dimostrati, cosa che non è avvenuta nel caso in esame.  Sarebbe stato preciso onere degli imputati allegare gli elementi di fatto idonei a dimostrare il contrario e dunque, la liceità di una condotta astrattamente riconducibile ad una forma di gestione dei rifiuti, in ossequio al principio, univocamente affermato da questa Corte, secondo il quale l’eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria in materia implica la dimostrazione da parte di chi lo invoca della sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla legge (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015 - dep. 08/07/2015, F. e altro, Rv. 264121, Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012 – dep. 11/05/2012, F., Rv. 25261; Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015 – dep. 08/07/2015, F. e altro, Rv. 264121).

La ricostruzione del quadro normativo riguardante la materia prima secondaria, introdotta con l'entrata in vigore del d.lgs. 152/2006, poi diventata con il d.lgs. 205/2010 cessazione della qualità di rifiuto, cd. "end of waste", che ha formato oggetto di precedenti arresti di questa Corte ai quali si rinvia (sez.3 n.41075 dell'1.10.2015, PM c. Lolliri, Rv.265165; Sez. 3, n.16423 del 20.2.2014, Di Procolo, non massimata), evidenzia, nell'ambito dei requisiti variamente succedutisi nel tempo, un elemento costante che percorre trasversalmente tutte le modifiche legislative intervenute, richiedendosi imprescindibilmente la sottoposizione del rifiuto ad un'operazione di recupero perché possa assumere la qualifica di cessato rifiuto. Al di là delle ulteriori condizioni richieste dalla formulazione attuale dell'art.184-ter d.lgs 156/2006 (e cioè che la sostanza o l'oggetto sia comunemente usato per scopi specifici, che soddisfi i requisiti tecnici per gli scopi specifici, che sussista un mercato e una domanda del materiale recuperato e non comporti impatti complessivamente negativi sull'ambiente e sulla salute umana), è quindi necessario che il rifiuto sia sottoposto ad un'operazione di trasformazione, il cui principale risultato, secondo la definizione generale fornita dall'art.183 e più dettagliatamente articolata con riferimento ai singoli materiali nell'allegato C dello stesso T.U., sia di permettere al rifiuto di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali che sarebbero altrimenti utilizzati per assolvere ad una particolare funzione all'interno dell'impianto o nell'economia in generale. Operazione questa che come ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza deve essere posta in essere, ai sensi degli artt.208, 214 e 216 d.lgs. 156/2006 da parte di un soggetto a ciò autorizzato (Sez. 3, n.25206 del 16.5.2012, Violato; Sez. 3, Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012 cit). 

Ciò premesso, nella vicenda che ci occupa non soltanto non risulta che i ricorrenti fossero muniti di alcuna specifica autorizzazione a compiere le operazioni di recupero, ma comunque non può ritenersi essere stata effettuata alcuna attività di recupero, di certo non evidenziata dal fatto che materiali della stessa tipologia, comunque provenienti da soggetti terzi e non dall'attività della società, rinvenuti sull'area fossero riposti all'interno di singoli cassonetti così come sostengono i ricorrenti e come peraltro la sentenza impugnata, così come il capo di imputazione, smentisce descrivendo quanto rinvenuto al momento del sopralluogo, ovverosia la presenza di vari container con al loro interno rifiuti di vario genere (materassi, vasi di fiori, pneumatici, carta, cartone, plastica, ferro etc), sulla separazione dei cui materiali nulla specifica, ma altresì traversine ferroviarie poggiate in terra ed altri cassonetti contenenti rifiuti e materiali di scarto, con conseguente indifferenziazione dei materiali ivi ammassati. Solo due cassonetti contenevano per certo materiale omogeneo, ovverosia olio esausto nella quantità di 1000 litri e filtri derivanti dalla manutenzione di automezzi, che tuttavia giudici di merito affermano, senza che le censure svolte dai ricorrenti si confrontino con la suddetta affermazione, non corrispondere a quelli utilizzati per la manutenzione dei mezzi della s.n.c. S. posto che dai registri di carico e scarico della società risultava annotato un quantitativo di 322 kg. di rifiuti di olio esausto, esattamente corrispondente a quello rinvenuto all'interno dell'impianto autorizzato, senza riscontri di quantitativi ulteriori. 

Il motivo in esame non può pertanto essere accolto. 

3. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo. Invero la sentenza impugnata ha ritenuto, con motivazione coerente e perciò immune da censure, accertata la mancata separazione dei rifiuti trovati all'interno dell'area autorizzata sulla base di quanto verificato dai verbalizzanti al momento del sopralluogo senza che le motivazioni fornite da Alessio Dalla Santa fossero idonee a giustificare l'omissione. Invero la circostanza che i tre imputati si affannano a ribadire nel presente ricorso, e cioè che la mancata separazione fosse un fatto meramente contingente per essere stati i rifiuti, all'arrivo degli agenti del Corpo Forestale, appena scaricati dai camion provenienti dagli ecocentri si configura quale allegazione meramente assertiva, priva di alcun concreto elemento a sostegno della natura provvisoria dello scarico. Ad escludere qualsivoglia illogicità motivazionale della sentenza del Tribunale soccorrono invero le deposizioni dei testi a discarico che, così come riportate nello stesso ricorso, risultano essere state correttamente definite irrilevanti non fornendo alcuna informazione sulla specifica e contingente collocazione dei rifiuti al momento del sopralluogo, ma soltanto la dinamica delle ordinarie operazioni di carico dei rifiuti presso gli ecocentri e scarico sul piazzale della sede della società dove venivano selezionati. 

2. Il terzo motivo è inammissibile per difetto di specificità non confrontandosi le doglianze svolte con le motivate argomentazioni spese del giudice di merito in relazione alla compartecipazione colposa dei ricorrenti ravvisata ai sensi dell'art.113 cod. pen.. 

La penale responsabilità dei tre imputati discende dalla carica formale dai medesimi rivestita di legali rappresentanti della società utilizzatrice dell'impianto per violazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alla gestione dell'attività svolta dalla persona giuridica. La cooperazione colposa di cui all'art.113 cod. pen. si realizza infatti quando più persone pongono in essere un'autonoma condotta che violi le regole di cautela latu sensu intese nella reciproca consapevolezza, in ciò sostanziandosi il legame psicologico che caratterizza l'istituto distinguendolo dal concorso di cause indipendenti, di contribuire all'azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell'evento non voluto (Sez. 4, n. 16978 del 12/02/2013, Porcu, Rv. 255274; Sez. 4, n. 25311 del 07/04/2004 - dep. 07/06/2004, Sidoti e altro, Rv. 228927). Neppure è necessario allorquando il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto, come nel caso di specie, direttamente dalla legge, la consapevolezza del carattere colposo dell'altrui condotta (Sez. 4, n. 26239 del 19/03/2013 - dep. 14/06/2013, Gharby e altri, Rv. 255696). Conseguentemente quand'anche uno soltanto dei tre imputati fosse l'effettivo amministratore di fatto dell'azienda, ovverosia così come dedotto in ricorso il solo Italo Romeo Dalla Santa, con la violazione da parte di costui delle regole di diligenza connesse alla gestione dei rifiuti, concorre necessariamente quella dei due figli per mancato esercizio di un'oculata attività di vigilanza e della conseguente necessità di adottare le opportune precauzioni di natura tecnica, essendo anche costoro astretti, in assenza di deleghe di funzioni al padre quale unico limite della responsabilità penale del legale rappresentante della impresa utilmente invocabile, agli obblighi di gestione derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso l'organizzazione e la gestione dell'azienda. 

All'esito del ricorso segue, a norma dell'art.616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende. 

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