10 anni dal rogo all'acciaieria Thyssen
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10 anni dal rogo all'acciaieria Thyssen
L'incidente ha provocato la morte di 7 persone.
Dicembre 2017
Dieci anni fa, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, presso l’acciaieria ThyssenKrupp di Torino, si sviluppava un focolaio di incendio, dovuto allo sfregare di un nastro trasportatore che scorreva lungo la linea di decappaggio e ricottura “APL5” dello stabilimento. Le fiamme, inizialmente modeste, si alimentarono grazie agli olii di produzione e dalla sporcizia giacente sul pavimento e, prima che i lavoratori riuscissero ad estinguerle mediante estintori portatili, determinavano l’improvvisa rottura di tubi contenenti olio idraulico in pressione, il quale, diffondendosi nell’aria, esplodeva violentemente in una enorme nube incendiaria, provocando la morte di sette operai ed un disastroso incendio, caratterizzato da vampate alte fino a cinque metri.
L’incidente
Poco dopo l’una di notte, sulla linea 5 dell’acciaieria di Torino, sette operai vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente, che prende fuoco. I colleghi chiamano i vigili del fuoco, all’1.15 arrivano le ambulanze del 118, i feriti vengono trasferiti in ospedale. Alle 4 del mattino muore il primo operaio, si chiama Antonio Schiavone. Nei giorni che seguiranno, dal 7 al 30 dicembre 2007, moriranno le altre sei persone ferite in modo gravissimo dall’olio bollente: si chiamavano Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino. Degli operai coinvolti nell’incidente, l’unico superstite e testimone oculare si chiama Antonio Boccuzzi: lavora nella Thyssen da 13 anni, è un sindacalista della UILM, il suo ruolo sarà centrale nella denuncia delle colpe dell’azienda.
“È una ferita che non può rimarginarsi accettare che si possa morire sul lavoro e per il lavoro". Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricorda così la strage della Thyssenkrupp a Torino.
Vicenda giudiziaria
Primo grado
Sentenza della Corte d’Assise di Torino 15 aprile 2011
Le motivazioni della Sentenza muovono dall'analisi e la verifica:
- della dinamica dell’incendio e le condizioni lavorative;
- dell'eccezionalità dell’evento e omissione delle misure antincendio strutturali;
- dell'inadeguatezza della formazione antincendio;
- del documento di valutazione dei rischi e del piano di emergenza;
- dei controlli dello stabilimento di Torino.
In estrema sintesi, la pronuncia mette in evidenza come, almeno a partire dalla metà del 2006, nelle acciaierie Thyssen di Torino le condizioni della sicurezza sul lavoro in generale, e della sicurezza antincendio in particolare, fossero affette da gravissime carenze strutturali e organizzative, quali, a titolo esemplificativo, la mancanza del certificato di prevenzione incendi; la riduzione degli interventi di manutenzione e di pulizia sulle linee, con conseguenti perdite di olio dai tubi che cagionavano frequenti incendi di varie proporzioni; il mero affidamento alla "mano dell'uomo" delle operazioni di rilevazione e spegnimento incendi, senza peraltro dotare i lavoratori di indumenti ignifughi e adeguata formazione, ed al contempo riducendo progressivamente il numero dei dipendenti con le professionalità più qualificate.
Nel dibattimento - illustra la sentenza - è emerso come tale disastrosa situazione fosse il risultato di due precise scelte aziendali, portate avanti contemporaneamente dalla Thyssen: da un lato la decisione di trasferire gli impianti torinesi presso il polo produttivo di Terni, e dunque di dedicare alla nuova sede tutti gli interventi di fire prevention, evitando così "inutili investimenti"; dall'altro lato la scelta, pure improntata a logiche di profitto, di continuare il più a lungo possibile la produzione torinese, fino cioè alla definitiva chiusura dello stabilimento. Ciò spiega perché a Torino si continuasse a produrre in condizioni di sempre maggiore deficit di sicurezza.
La sentenza illustra dettagliatamente in che modo "la decisione di non fare nulla" per la sicurezza dei lavoratori sia stata la causa dell'incidente letale, concretizzatosi in quello che gli esperti hanno definito un flash fire, ossia una nube incandescente provocata da un getto di liquido infiammato. Il profilo di maggior interesse della decisione - se non altro per il suo carattere di assoluta novità nel panorama della giurisprudenza penale in materia di sicurezza sul lavoro - concerne tuttavia l'accertamento del dolo eventuale di incendio ed omicidio in capo all'amministratore delegato di ThyssenKrupp Terni, con conseguente sua condanna ai sensi degli artt. 423 e 575 c.p.
La ricostruzione accusatoria veniva integralmente accolta dalla sezione seconda della Corte di assise di Torino, la quale, l’11 aprile 2011, condannava l’a.d. della società ad una pena di 16 anni e 6 mesi di reclusione per il delitto di omicidio volontario (nonché per i delitti di incendio doloso e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro), commesso con dolo eventuale, e gli altri imputati a pene comprese tra 13 anni e 6 mesi di reclusione e 10 anni e 10 mesi di reclusione, per i meno gravi delitti di omicidio colposo, incendio colposo – entrambi aggravati dalla previsione dell’evento – e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.
Innanzitutto, nonostante la presenza di numerosi elementi che consentivano – a parere dei giudici di primo grado – di affermare che tutti gli imputati si fossero rappresentati «la concreta possibilità del verificarsi di un incendio e di un infortunio anche mortale sulla Linea 5 di Torino» e che, parimenti, tutti «gli imputati sperassero, nonostante la prevedibilità, la previsione e la rappresentazione [...] dell’evento, che non capitasse “nulla”», solo la speranza nella non verificazione dell’evento degli imputati diversi dall’a.d. avrebbe posseduto il carattere della «ragionevolezza», necessario, secondo la Corte torinese, per la sussistenza dell’«elemento soggettivo della colpa cosciente».
Ciò in quanto, mentre i garanti derivati – i dirigenti e i membri del comitato esecutivo – avrebbero potuto ragionevolmente confidare nel fatto che i propri diretti superiori gerarchici – in definitiva: l’a.d.– "in qualche modo evitassero il verificarsi dell’evento previsto", l’Amministratore delegato non poteva confidare in "alcun fattore, alcun elemento [...] in forza del quale egli potesse “ragionevolmente” sperare che non sarebbe capitato nulla". Inoltre, nel decidere "di non investire nulla a Torino in “fire prevention”» – decisione a sua volta derivante dalla programmata scelta di chiudere lo stabilimento e spostare la APL5 a Terni –, l’a.d. avrebbe svolto una vera e propria "deliberazione", con la quale avrebbe subordinato il bene della "incolumità dei lavoratori nello stabilimento di Torino" a quello degli "obiettivi economici aziendali". Infatti, L’a.d., "persona preparata, autorevole, determinata, competente, scrupolosa", avrebbe colto perfettamente l’irrazionalità, dal punto di vista strettamente economico, della decisione di investire in sicurezza in una linea – l’APL5 di Torino – in procinto di essere trasferita a Terni e, piuttosto che compiere un investimento destinato, evidentemente, a non fruttare (o, addirittura, a sospendere la produzione a Torino in attesa del trasferimento e della messa in sicurezza della linea di ricottura e decappaggio a Terni), avrebbe deciso per il sacrificio eventuale dell’incolumità fisica dei lavoratori: in ciò, i giudici di merito ravvisavano «l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato", e dunque, il dolo eventuale di omicidio.
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Prima della sentenza della Corte d’Assise di Torino 15 aprile 2011 non era mai stata accolta l’ipotesi dell’omicidio volontario con dolo eventuale ma era affermato, pacificamente, quella dell’omicidio colposo. Invece, grazie all’intenso lavoro investigativo del pool diretto dal Procuratore aggiunto di Torino, questo teorema ha lasciato spazio alla ricerca delle responsabilità penali a tutto campo, indagando su molteplici aspetti che riguardano anche la politica aziendale e che hanno consentito di mettere a fuoco alcune condotte caratterizza te, secondo i giudici, da particolari elementi di gravità sul piano omissivo per quanto riguarda sia i profili strutturali che organizzativi. Ma la sentenza ha messo in luce anche un altro aspetto di grande importanza, la cosiddetta responsabilità amministrativa della società ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha determinato effetti particolarmente negativi che possono compromettere anche irreparabilmente la capacità operativa dell’impresa.
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Secondo grado
Processo d'appello
Corte d'Assise d'appello di Torino, 28 febbraio 2013 (dep. 23 maggio 2013)
Nelle 346 pagine riguardanti la sentenza del 28 febbraio ha condannato l’ad della Thyssenkrupp Harald Espenhahn e cinque dirigenti a pene tra i dieci e i nove anni si legge che: “per un imputato come Espenhahn, imprenditore esperto, abituato a ponderare le proprie decisioni nel tempo, anche confrontandosi con altri collaboratori specializzati, è impensabile che egli abbia agito in maniera tanto irrazionale. […] Ovviamente questo non significa affatto che Espenhahn (e anche gli altri imputati) non previdero gli eventi come possibili ma solo che essi fecero prevalere le loro personali valutazioni che essi non si sarebbero verificati, nonostante tutti gli avvisi, gli allarmi che avevano ricevuto e che avevano loro indicato chiaramente il contrario”. Da qui la valutazione in base alla quale i manager “agirono nella convinzione che gli eventi sarebbero stati evitati”.
I sei imputati quindi “devono essere ritenuti responsabili dei reati di omicidio colposo plurimo e incendio colposo aggravati dalla previsione degli eventi”.
“Non ci fu nessun comportamento imprevedibile da parte degli operai”. “Gli operai non fecero che dare attuazione al Piano di emergenza che era stato loro imposto ignari che il vero pericolo per loro non era costituito dalle fiamme cui si avvicinavano, ma dall’innescarsi improvviso di una nuvola incandescente che li avrebbe avviluppati senza scampo”.
“C’è qui da condividere il giudizio di eroismo che è stato espresso dalla prima Corte nei loro confronti, sottolineando come era diventato assolutamente normale che persone, ignare dei veri rischi e senza alcuna formazione anticendio, si sobbarcassero il compito di affrontare le fiamme con mezzi inidonei e con il divieto di chiamare i vigili del fuoco”. Era “diventato normale per la dirigenza aspettarsi da loro che superassero le remore di auto protezione minimali per chiunque e che si esponessero così a rischi che solo la dirigenza conosceva e contribuiva a mantenere”.
Appello bis
La Corte d'assise d'appello ridetermina le pene: 9 anni e 8 mesi per Harald Espenhahn, 7 anni e 6 mesi per Daniele Moroni, 7 anni e 2 mesi per Raffaele Salerno, 6 anni e 10 mesi per Gerald Priegnitz e Marco Pucci e 6 anni e 8 mesi per Cosimo Cafueri.
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Cassazione
Cassazione Penale, Sez. 4, 12 dicembre 2016, n. 52511
E' stata una "colpa imponente" quella commessa dall'ex ad della Thyssen Harald Espenhahn che insieme ad altri cinque manager del gruppo siderurgico ha provocato, per la totale e consapevole mancanza di adeguate misure di sicurezza, il rogo. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni della sentenza del 13 maggio.
I supremi giudici affermano inoltre che quella commessa è stata una "colpa imponente" anche per "la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento".
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Corte d'Assise d'appello di Torino, 28 febbraio 2013 (dep. 23 maggio 2013).pdf |
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